L’inventario di Germano Gualdo

Pubblichiamo l'inventario di Germano Gualdo (1926-2005), accademico che fino al 1992 fu curatore dell'Archivio Segreto Vaticano. Uno studioso vicentino in Vaticano di Giovanni Pellizzari Come il suo grande amico, il medievalista padovano Paolo Sambin, Germano Gualdo è stato uno studioso in certo senso anomalo: entrambi non spiccano per quantità e imponenza di pubblicazioni, né per vastità di orizzonti, varietà di argomenti e figure. Si possono paragonare a pittori, che si fossero limitati a schizzi o studi preparatori, o a restauri minuziosi d’opere altrui. Un’apparente selettività o restrizione di interessi, ovvero di argomenti, la loro, che non li ha mai fatti approdare al libro a tutto tondo, da leggere dal principio alla fine, allo studio compiuto, nutrito di pensiero forte, né tantomeno al caso sensazionale, o alla sintesi possente. Uomini prima di tutto di scuola, d’aula, le loro pubblicazioni non hanno mai oltrepassato la ristretta cerchia degli specialisti — e degli allievi — per raggiungere le grandi case editrici e le recensioni di larga udienza, quelle dei recensori-saggisti e giornalisti di chiara fama e di facile penna, che fanno opinione; e per loro tramite la popolarità, sia pure elitaria, e le tirature di un Mazzarino, d’un Ginsburg, d’un Prosperi, d’un Tenenti: autori di libri di (meritatissimo) successo. Niente o poco, ad es. in loro a che vedere con il maestro di Sambin, il vulcanico Cessi — a parte l’amore comune per le carte d’archivio. Una tradizione di positivistica asciuttezza e puntualità di argomenti, una sorta di prudenza e circospezione, cui non mi sembra estraneo un abito di civile e curiale, cattolico ritegno, li sollecitava a ricerche polarizzate più sull’archivio che sulla biblioteca (adotto una distinzione e tipizzazione di Adriano Prosperi): entrambi diffidenti verso seducenti generalizzazioni, tematiche astratte, sintesi poderose, risposte rischiose a domande troppo generali, come a casi sensazionali ed esemplari: per entrambi si può parlare dunque di erudizione. Ma, a scanso di equivoci, la loro è erudizione consapevole, colta, aggiornata, intesa come contributo originale ad un argomento determinato, entro un paradigma mai messo in questione: non certo al servizio dell’aneddotica o della trouvaille curiosa, meno ancora dello sfoggio d’un sapere squisito: culto del documento, certo, non feticismo e bramosia di notizie inedite qualsivoglia (non una sola riga è forse uscita invano dalle loro penne). Pure se spesso implicite, o accennate, sono però impeccabile la pertinenza e l’inquadramento prospettico dei temi trattati: che si sono rivelati non di rado anticipatori; e codesta capacità di intuire e precorrere nuovi temi, o di riprendere con nuovi approcci temi obsoleti, o trascurati, portati a nuove significazioni, è virtù storiografica senza aggettivi, non da eruditi, o da storici ‘minori’. Per questo loro frammentismo se non modelli intenzionali, vengono in mente analogie illustri, quelle del card. Giovanni Mercati e di un Giulio Battelli. Storici anche di contingenze e istituzioni, Sambin e Gualdo, ma angolate sempre di scorcio o in un’ottica di situazioni ben delimitate. Non avevano, mi pare, in sede storiografica, rispetto alla scuola delle Annales, o allo storicismo marxistico, un proprio paradigma da contrapporre: che non fosse la sottaciuta fede nel trascendente cristiano declinato secondo Santa Romana Chiesa, anzi secondo quello che allora si chiamava Personalismo cristiano: ma ne so troppo poco per potervi insistere. Lasciato però discretamente in ombra il loro credo, senza passionali professioni di fede e anche senza che la loro attività scientifica confondesse integralisticamente i due reggimenti: cattolici impegnati lo erano, ma col senso d’una dignità laica, lontana da clericalismi servili, apologetiche ed unzioni. Come storici, nessuna dichiarazione o adesione che suonasse fideistica, retorica, opportunisticamente ‘allineata’. Ma quello che come storici portavano in cuore entrambi era l’amore per la verità, intesa come costruzione collettiva, ardua e interminabile: il fervore della cattedrale medievale sempre in fieri, cui ogni artigiano-artista può e vuole liberamente, secondo la visione di Ruskin, dare il suo contributo: chi a tagliar pietre, e a trasmetter agli apprendisti i segreti del mestiere; chi a rafforzare le strutture, chi ad dare un volto ad una statua in una nicchia isolata, chi a rifare una cupola grandiosa, ad aprirvi una cappella; e chi, umilmente, ma con dignità consapevole, a mantenere pulita la fabbrica, a tenerne accese le lampade. Storiograficamente, al vino e ai liquori , preferivano l’acqua: preziosa, umile et casta. I loro asciutti contributi a stampa presupponevano interessi e saperi da specialisti: perché per lo più si rivolgevano direttamente alla corporazione, che non ha bisogno di lenocini, o di istruttivi e magari brillanti inquadramenti contestuali. Il loro rapporto vero con il pubblico essi lo trovavano, non nella pagina stampata, ma socraticamente, nel fervore del dialogo, nella civile conversazione, nelle raccolte societates di cui facevano parte. E nelle amicizie. Ma in primo luogo nell’aula, nelle esercitazioni, nella dottrina profusa con calore e candore pari alla chiarezza, nelle lezioni scrupolosamente preparate, e nelle tante occasioni ed incontri (compresi i tanti incontri e le tante conversazioni telefoniche, oltre che epistolari) in cui additavano una ricerca, proponevano un indirizzo d’indagine, incoraggiavano una ricerca, suggerivano una soluzione, donavano con semplicità un mazzetto di schede, che immancabilmente si rivelavano prima o poi preziose. C’era in loro qualcosa di ascetico, di monastico o di militaresco (nel senso d’una milizia esemplare, cavalleresca): esito ad adottare la metafora che forse non avrebbero gradito: ma stavo per scrivere che c’era qualcosa di sacerdotale, nel loro intendere la figura del professore: una probità, forse un pudore, ma anche una sobrietà, e un rigore, direi un’eleganza, che frenava sul nascere il protagonismo, la scena, l’esuberanza narcisistica caratterizzante l’attività ex cathedra di altri colleghi. In compenso, avevano il senso della progettualità e del lavoro comune: non solo nel fondare o alimentare coi propri contributi e collaborazioni, e più con la loro assidua , accorta, energica regia e capacità di indirizzo e di sprone, riviste e collane editoriali di grande durata e prestigio; ma, nel caso di Sambin, anche nel metter in piedi una casa editrice. Lui, così dimesso e apparentemente assorbito nella sua cerchia accademica di interessi. Soprattutto, quel che, non solo chi scrive, ma legioni di ex studenti e studiosi, ormai avanti negli anni, possono testimoniare, è la loro generosità, affabile, reale, cordiale, soccorrevole, disinteressata: nessuno dei due ha mai chiesto all’interlocutore che gli scrivesse o telefonasse per un consiglio, per una consulenza, per una notizia d’archivio, di quale colore politico fosse. Lo credete normale? Siete ingenui o non avete vissuto in certe epoche ed ambienti. A nessuno, credo, essi chiesero mai un atto di appartenenza, un qualche tributo simbolico: lontano da loro non si dice il do-ut-des, ma la distanza carismatica, il sussiego, la coda di paglia, lo snobismo, il noli-me-tangere, la prepotenza o la boria infine, di altri professori. Invece — non a contrasto ma ad integrazione —, era poi in loro vivissima la passione per la societas, per l’incontro di gruppi coesi: il piacere, visibile, di formare, di avviare alla conoscenza attraverso un metodo, di dotare allievi e cultori degli strumenti di base della ricerca, di accompagnarli a scoprire e condividere lo stupore problematico del documento: la traccia, quasi il respiro d’un passato: se illustre, fatto vicino e tangibile: se umile o umilissimo, pur visto nella sua unicità: da esaminare “a luce radente”, da cui ‘spremere’, come esortava Sambin, ogni goccia di umanità e conoscenza. Per entrambi, la riluttanza ad impegnarsi in ricerche d’ampio raggio, avrà avuto anche ragioni pratiche e personali, ma non nasceva certo da pusillanimità: semmai da umiltà, dal loro perfezionismo, dalla ripugnanza per le facili generalizzazioni, per le sirene delle fantasie integratrici, per le suggestioni di insidiose analogie; o per l’adozione di paradigmi precostituiti. Forse, inconfessato, c’era qualcosa che aveva a che fare con il loro senso profondo, religioso, della storia: non diffidenza verso le idee, come talvolta poteva apparire, ma verso le ideologie e gli abusi volgari della storia, trasformata in arma politica. Ma per venire ora proprio a Gualdo, egli, di famiglia vicentina, era nato a Foligno, nel 1926, e si era laureato in lettere dell’Università di Padova. La sua stessa tesi di laurea, conseguita nel 1954 (anno accademico 1952-3) col prof. Beniamino Pagnin come relatore e con l’assistenza di Paolo Sambin, — tuttora consultata con profitto, e talora saccheggiata —, era un’opera animosa e d’ampio respiro, e tale da consacrare già un maestro: quel Contributo per un codice diplomatico vicentino, tesi mai pubblicata, e che avrebbe ben meritato nei decenni successivi di servire per base di quel Codice Diplomatico di cui Vicenza, a differenza di Padova, di Verona, di Mantova, è ancora priva. Un’occasione perduta in primo luogo per l’Accademia Olimpica che se n’era fatta promotrice. E non minore ampiezza aveva il primo studio di Gualdo comparso a stampa, nel 1956, dedicato alla cronologia dei vescovi di Vicenza dal secolo VI al secolo XII compreso. Una ricognizione, la sua, che nei voti di chi dirigeva la collana « Italia sacra», allora in procinto di nascere, avrebbe dovuto estendersi ai vescovi altomedievali delle Venezie Ma, trasferitosi ormai a Roma, rendendosi conto della inattuabilità pratica del disegno, egli aveva pensato ad un altro tema, che, dall’Archivio Vaticano, dove ormai lavorava, gli pareva avrebbe potuto invece indagare, grazie al Fondo Veneto del grande archivio centrale della Chiesa di Roma: l’attività degli Umiliati a Vicenza e di consimili gruppi di laici dediti a vita religiosa a Cologna Veneta. Ma anche questo progetto restò sulla carta. Per inconcludenza? Il fatto è che nel 1958 egli aveva ormai intrapreso il suo lavoro di “scrittore” (tale la qualifica nell’Archivio Vaticano): e l’impegno profusovi si rivelò presto tale da non consentirgli di armonizzare l’impegno professionale con gli studi progettati: inconciliabili per lui, non certo per chi si fosse accontentato di approssimazioni e di “frettolose ricostruzioni” (Rigon). A Roma era giunto con una borsa di studio del Comitato cattolico docenti universitari, conseguendo il Diploma alla Scuola Vaticana di Paleografia e Diplomatica, e presto s’era inserito in un gruppo di giovani studiosi e intellettuali di spicco, fra cui mons. Michele Maccarone, che subito lo impegnò a collaborare alla «Rivista di storia della Chiesa in Italia». Di quella cerchia di giovani studiosi faceva parte anche la giovane napoletana Lucia Rosa, futura titolare della cattedra di Filologia umanistica alla Sapienza di Roma, che divenne sua moglie: ad essa lo scrivente e, suo tramite, l’Accademia nostra invia un deferente e affettuoso saluto. E a Roma Gualdo trovò un maestro: anzi una “stella polare” (Rigon): appena entrato, dopo il Diploma, con la carica di “scrittore” in Archivio Vaticano, lo entusiasmerà “l’ineguagliabile scuola viva… costituita dal continuo, giornaliero contatto con la personalità di Battelli”: Giulio Battelli, astro al quale egli, con la docenza, succederà come Direttore della Scuola Vaticana di Paleografia e Diplomatica. Alla quale, con altri incarichi, affiancò quello di incaricato nella facoltà di Diritto civile nella Pontificia Università Lateranense. Ma la sua attività didattica spaziava anche fuori dalle mura vaticane: a Padova, nelle occasioni di incontro con il suo amico (ed altra “stella polare”: ci si perdoni l’immagine, incongrua nel cielo astronomico, non in quello spirituale) Paolo Sambin, ordinario di Storia medievale all’Uiversità di Padova, da quello invitato a tenere corsi di Diplomatica pontificia presso la sambiniana Societas veneta di storia Ecclesiastica: chi c’era (ancora una volta ricorro alla testimonianza di A. Rigon) ci parla della “cristallina” chiarezza di quelle lezioni patavine, temperata da “bonaria ironia” del professore. Col quale chi scrive queste righe ha avuto solo rapporti telefonici ed epistolari: potendo stringergli la mano, balbettandogli qualche emozionata e temo non intesa parola, solo in occasione — una occasione festosa, ma accorata per tutti i presenti, dato il suo stato di salute — della presentazione del suo libro, in cui, in una collana insigne, e a lui cara, si raccoglievano gran parte degli scritti più significativi dell’Autore, altrimenti dispersi in pubblicazioni di non sempre facile accesso. Vi era dunque compendiata la sua vita di studioso, per quanto un libro o cento libri possano rappresentare efficacemente un uomo, un docente in specie. Dalla stessa architettura del libro, appare a prima vista che tutta la sua attività matura di studioso ha orbitato entro un’età e un ambiente delimitato: la Curia romana, fra secondo Trecento e metà Quattrocento, allora lacerata e scossa da vicende tempestose, che parevano senza fine: dal cruento ritorno a Roma del papato, in una Italia centrale riottosa al rinnovato potere temporale; ai due grandi Concili e agli scismi, fino alla riunificazione della cattedra di Pietro, avvenuta in piena rivoluzione culturale umanistica. Ma dell’età e del papato non erano ricostruite le vicende, teologico-diplomatiche di vertice, le figure dei papi, la loro personalità, né l’ambiente di corte —, quella suprema, e le corti cardinalizie—, o altro (finanze pontificie, alleanze, guerre, feudalità, nepotismi…), ma si esaminavano i riflessi e il gioco delle forze, proiettati e impressi sulle forme dei documenti pontifici, sugli uffici che li emanavano, sugli uomini che li producevano. Spesso i suoi contributi danno l’impressione d’un “caleidoscopico intreccio” (così Pratesi) di tante notazioni minute: non certo per sfoggio di erudizione. Semmai come un sismologo che studi ampiezza e potenza dei sismi dal vibrare d’un’asticella in un laboratorio lontano. O il geologo che dal succedersi di sabbie ed argille trova conferma di sconvolgimenti climatici e di alluvioni. Meglio ancora: si pensi all’archeologo attuale, al quale il setacciare e studiare scientificamente in pochi metri quadrati di terra, frammenti di osso, semi e pollini, consente la ricostruzione di culture a noi lontane e stili di vita insospettati. Tali le prove storiografiche di Gualdo. La triade: documento, uffici, burocrazia curiale si specifica nelle tre dimensioni, anzi, per dirla con Alessandro Pratesi, nei tria corda che hanno ispirato la vocazione e le inclinazioni scientifiche di Germano Gualdo: la diplomatica pontificia, l’umanesimo curiale, la storia dell’Archivio segreto Vaticano. Ma una scelta del genere “impone una padronanza di metodologie diverse” (Pratesi), normalmente tenute distinte e affidate a saperi e competenze anche istituzionalmente separate, con la conseguenza di finir per frammentare la percezione e conoscenza di fatti culturali e personaggi: quelli appunto che Gualdo si sforza di considerare in una visione unitaria, “orizzontale”, come la chiama Pratesi, vale a dire transdisciplinare, in cui “dalle minuzie della ricerca emerge in tutta chiarezza l’intreccio tra sviluppo delle nuove forme documentali [il breve, forma umanistica per eccellenza], trasformazione interna degli uffici di Curia, con conseguente afflusso di personale di estrazione diversa, e vicende del papato […] Nelle pagine di Gualdo questa stretta correlazione tra eventi storici di portata mondiale ed elementi tecnico-strutturali apparentemente di scarso rilievo risulta di così evidente consequenzialità da lasciarci stupiti…”. Resta, infine, l’aspetto propedeutico, strumentale, degli scritti di Gualdo, a partire dai suoi Sussidi per la Consultazione dell’archivio Vaticano (pubblicati nel 1981) che, oltre ai singoli contributi orientativi, ora raccolti nel volume citato, collocano Gualdo entro l’illustre tradizione degli archivisti vaticani, autori di indispensabili strumenti di corredo: sussidi preziosi, senza i quali tanti giovani studiosi, già sulla soglia dell’immenso, impareggiabile Archivio arretrerebbero smarriti. Germano Gualdo è mancato il 2 ottobre 2005. Il 10 marzo di quell’anno era scomparso, centenario, Giulio Battelli. Paolo Sambin, l’altro suo maestro, l’aveva preceduto di poco, nell’agosto del 2003. Un corollario, certo incompleto: Gualdo fu Membro della Commission internationale de Diplomatique, socio ordinario dell’Accademia Olimpica di Vicenza, membro della Società romana di Storia patria, della Deputazione di Storia patria per le Venezie, del Centro italiano di Studi pomposiani. Post scriptum. Mi rendo conto che questa nota che l’amico Vittorio Bolcato, conservatore amoroso dell’Archivio dell’Accademia ha voluto stendessi, per preporla all’inventario delle ‘Carte Gualdo’, donate con pensiero squisito all’Accademia dalla Vedova, questa nota, dico, ha assunto qua e là un tono fastidioso. Per due difetti: l’uno la ridondanza, ad onta di ripetuti sfrondamenti: è una verbosità nascente da incertezza: perché le discipline dal professor Gualdo professate, chi scrive, non le padroneggia certo; e perciò è proceduto a volte a spirali e festoni di formule generiche e approssimate. Poi, talvolta, rileggendo, ne riporto un’impressione di untuoso, di agiografico, che sarebbe, temo, spiaciuta all’ironico ed elegante professor Gualdo, e che non piacerà a più d’un lettore. Occorreva usare il chiaroscuro, ma mi mancava, prima ancora del mestiere giornalistico del ritrattista, lo stesso studio diretto del modello, da me non frequentato, e tanto meno di quell’Archivio Vaticano, frequentato una sola volta, affannosamente per il poco tempo a disposizione, e senza la sua guida. Provo in extremis a graffiare un poco la indoratura edificante della mia nota. Me ne dà il destro un’impressione e una (quasi) certezza. L’impressione, risalente a qualche inciso o dichiarazione anche perentoria, di certi suoi interventi, in occasione di Convegni, letti nelle sue carte, è che Germano Gualdo non fosse un carattere facile: doveva nutrire, giustamente, un forte sentimento di dignità personale, per niente incline ad opportunismi tattici: se ho parlato di umiltà, l’ho fatto in rapporto alla perfezione irraggiungibile che lui aveva in mente: niente a che vedere con certi collitorti alla Huriah Heep. La certezza è che, una volta pensionato, egli non ha mai più varcato la soglia del suo Archivio segreto Vaticano. Perché ciò sia accaduto, non saprei dire. Certo non si vedeva nei panni del giubilato: ma credo ci sia dell’altro. Per quest’altro, nella misura in cui può interessare una biografia fuori del comune, e per tanto altro ancora, servirebbero le lettere. E’ un invito alla Signora Gualdo: con tutti i vincoli che la Sua discrezione ritenga opportuni, preservi quanto può della corrispondenza di Germano. Se non alla nostra Accademia, le affidi a qualche altra istituzione. C’è più di qualche zona d’ombra della storia recente dell’Archivio Vaticano e della sua scuola, che ne verrebbe, è da credere, illuminata; e certamente molto altro, a partire dalla splendida amicizia con Paolo Sambin, che restituirà a Germano Gualdo la voce e il moto della vita, non la fissità improbabile d’un’ icona. Non do bibliografia¹. Le citazioni sparse nella nota si riferiscono ai discorsi celebrativi tenuti presso la sede dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo, in occasione della presentazione del libro di Gualdo², e si leggono in «Rivista di storia della Chiesa in Italia», 2006 (2). ¹ Si veda quella consultabile in rete, a cura dell’AIDP (Associazione Italiana dei Paleografi e Diplomatisti), sub voce ‘Germano Gualdo’. ² Germano Gualdo, Diplomatica pontificia e umanesimo curiale. Con altri saggi sull’Archivio Vaticano, tra Medioevo ed età moderna, Roma, Herder, 2005.

GERMANO-GUALDO-pdf.