La corrispondenza di Enrico Niccolini

Avvertenza

Presento al lettore quello che si definisce uno strumento, o sussidio, ‘di corredo’, anche se anomalo perché meno arido e formalistico degli inventari e regesti previsti dalla prassi archivistica. Aridità e formalismo propri d’una funzione, appunto, strumentale. Nessuno chiederebbe ad una zappa o ad un martello altra eleganza che non coincida con la loro efficacia di funzione. Ma la natura di questa rassegna della ‘Corrispondenza Niccolini’— come il lettore vedrà — è duplice (non per nulla il suo redattore il prof. Giovanni Pellizzari nostro accademico ha voluto chiamarla Rivisitazione). Un primo scheletrico inventario egli l’aveva steso a tamburo battente, quando l’Accademia aveva acquisito quella parte della corrispondenza del prof. Niccolini che la vedova signora Graziella Marini aveva scelto di destinare al nostro archivio. Ma fin da allora egli si riprometteva di tornare su quelle lettere, per offrire non solo agli studiosi, ma ad auspicati semplici lettori del sito, un ampio ‘regesto’ della corrispondenza.
Al risultato della sua fatica (con i limiti dovuti alle circostanze d’eccezione in cui viviamo), come responsabile dell’Archivio accademico, do volentieri il benvenuto, riconoscendone la pertinenza e l’utilità. Che è, quest’ultima, duplice: costituendo una fonte esigua, ma dai cento rivoli, per la storia della società e della cultura vicentina, riflessa nella personalità d’un suo protagonista in apparenza minore, ma pur rappresentativo di un’epoca.
E, d’altro canto, la rassegna di Pellizzari può essere fonte d’altro tipo: invito ad un vagabondaggio dilettevole, mossa da curiosità per quel tanto di aneddotico e cronachistico che trapela da testi, regesti e note. Se non si volesse leggerla, benché Pellizzari non sarebbe forse d’accordo, quale una sia pur intermittente biografia.
Ma desidero chiarire un aspetto, pur in sé secondario, per chi abbia famigliarità con gli archivi.
L’archivio ha la sua storia, di cui gli stessi strumenti di corredo fanno parte. Documenti anch’essi.
Il lettore è perciò invitato a considerare la forma del repertorio allestito da Pellizzari come, appunto, uno ‘strumento’, divenuto ormai già documento d’archivio. Ad esso si chiede solo la funzionalità. Voglio dire che, se al testo di Pellizzari mancano gli standard tipografici e la compiutezza dell’informazione, che giustamente si devono pretendere dalla saggistica, dalle monografie e dalle edizioni critiche destinati alla stampa, noi lo riproduciamo così come ci è stato consegnato: con quel grado di elaborazione e con le sbavature compatibili con la sua dichiarata funzione e scopo strumentale, quasi di appunti. Mi avesse l’amico Pellizzari presentato un inventario manoscritto, anche con cancellature e qualche macchia di biro, purché di sicura utilità, io l’avrei comunque offerto qui all’intelligenza dei lettori (s’intende, col ‘placet’ del responsabile del ‘Sito’, l’Accademico Cesare Galla). E avrei agito con piena consapevolezza di archivista nell’interesse degli studiosi che ben sanno quanti siano i repertori e regesti dattiloscritti o manoscritti, talvolta laceri, eppure indispensabili e che nessuno si sogna di dare alle stampe in forma ‘corretta’. Perché ormai anch’essi sono parte della storia di quell’archivio. Documenti anch’essi, inventariati e indemaniati.
Un’ultima avvertenza. In testa a questa rassegna ho posto la breve biografia del marito scritta dalla vedova Signora Graziella Niccolini Marini proprio in occasione della consegna di questo lascito, che vorremmo far conoscere alle nuove generazioni di vicentini. Giova sperare.

Vittorio Bolcato
Vicenza, 27 novembre 2020

P.S. A testo approvato, ecco che l’Autore vi ha fatto inserire a sorpresa una sorta di lettera prefatoria. Non posso tacere il mio imbarazzo e, anzi, la mia contrarietà: di cui saranno facilmente intesi i motivi. Così come sarò ancor più agevolmente compreso se confesso che, pur disapprovandolo, il gesto dell’amico, m’ha fatto non poco piacere. V.B.

 

Una rivisitazione della Corrispondenza Niccolini. Transunti e note delle lettere giacenti in Accademia, premessavi una lettera del curatore e suggellate da un epilogo.

di Giovanni Pellizzari

Caro Vittorio,
eccoti la promessa rivisitazione della ‘Corrispondenza Niccolini’ custodita nel nostro Archivio. A te che ne sei il Socio Conservatore ed Archivista, dedico questa mia modesta fatica. Gli intenti dell’opera, li hai a suo tempo condivisi: così come ti sono familiari i criteri cui, in tale sorta di lavori, sono solito attenermi. So dunque che l’accoglierai di buon grado, essendone — se pur senza averne potuto seguire vicende e risultati — il patrono.
La peste manzoniana, — lasciami maneggiare anch’io, buon ultimo, quello specchio parabolico, ripulendolo un poco, anzi disinfettandolo, dai fiati che troppi, in questi mesi, vi hanno alitato — , quella peste, come sai bene, proietta entro il nostro oculare scene stranamente a noi prossime: prodigioso strumento di ottica storica ed umana, i Promessi Sposi.
Ci puoi incontrare — ricordi? — l’ intellettuale negazionista, che ce l’ha coi medici, e con le misure igienico-sanitarie da essi prescritte, e commisera la “povera gente”, che per ignoranza ci casca; ma Don Ferrante, lui, sa bene che il contagio non esiste, se la ride di distanziamenti e di cautele; e appestato, muore prendendosela con le stelle.
C’è il comportamento cinicamente ondivago dell’autorità, che dapprima minimizza, poi gestisce male l’emergenza, ma intanto cerca — e subito trova — un bel capro espiatorio da offrire all’opinione pubblica, i disgraziati della ‘Colonna infame’; e finisce per mettere in mano alla Chiesa tutta la gestione ospedaliera al collasso.
C’è l’efficientissimo Cardinale, che, fra una caccia alle streghe e l’altra, fa svolgere la super-affollata processione anti-peste, dietro il corpo di San Carlo: con infallibile effetto moltiplicatore dei contagi. Ma lui, il buon Federigo, l’è minga stüpid: gira per Milano al sicuro da sbaciucchiamenti, droplet e aliti cattivi lui, inscatolato in una gran portantina dalle pareti di cristallo, attraverso cui distribuisce in abbondanza a vivi e moribondi le sue paterne benedizioni.
Ci sono i malati e sospetti confinati dentro le lor abitazioni, che, col morto in casa, aspettano, morenti di fame, se non di peste, il carro dei monatti.
E ci trovi pure i gaudenti che vanno in discoteca a sniffare e rimorchiare: voglio dire in certi “ridotti” a “straviziare”. E poi qualcuno di essi si sveglia nel cuore della notte con un bel bubbone sotto l’ascella.
Ed eccoli qua, i già guariti e immuni, gli allegri compagnoni, portantini e becchini, che lucrano sulla morìa, e cantano e bevono a garganella sopra i carri dei morti. — E non mancano neppure quelle due donne — te le ricordi, Vittorio? —, cui la fortuna riserva l’avventura sognata: nientemeno che di beccare sul fatto uno di quei turpi individui, un untore; quel tal Renzo Tramaglino, colto sul fatto mentre armeggia all’uscio d’un palazzo: ed eccole strillare più non posso. Sicché, non fosse per i monatti, che accolgono come un loro benefattore, la cosa finirebbe a coltellate, meglio se con un bel linciaggio finale sul posto.
Ecco, caro Vittorio, al tuo delegato è accaduto qualcosa del genere. Del resto a tutti noi, sia che bussassimo alla porta d’una casa di riposo, sia che sostassimo in attesa sulla soglia d’una nido d’infanzia, o salissimo in autobus, in questi mesi, fra eccessi di zelo e vendicativa libido vetandi per opera di mille frustrati — cui, da un giorno all’altro, è stato offerto “Il sottile piacere di nuocere agli altri con l’alibi di farlo per il bene di tutti” (copyright di Massimo Gramellini): insomma qualcosa di tanto avvilente quanto gratuito a ciascuno di noi è pur toccato. “Così l'ignoranza, coraggiosa e guardinga alla rovescia, aggiungeva ora angustie all'angustie, e dava falsi terrori, in compenso de' ragionevoli e salutari che aveva levati da principio”, conclude mestamente pensoso il nostro Manzoni. E così il mio lavoretto, che avrebbe riempito giusto i mesi estivi, prima di dedicarmi ad altre non differibili cure, è slittato ed ha perso per strada una buona parte d’entusiasmo e di energia propulsiva.

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Orsù, congediamolo senza troppi indugi. Solo ricordo — non a te che lo sai benissimo — che metà della corrispondenza di Niccolini è, per volontà della Vedova del nostro consocio, custodita ora presso l’ISTREVI di Vicenza, corredata da un mio, forse dimenticato, strumento di corredo e da un ritratto del vecchio collega, sbozzato alla diavola dal sottoscritto sul filo dei ricordi.
La scelta della signora Graziella Niccolini si spiega così: le lettere d’argomento politico, cucite dal filo rosso — ragioni, sentimenti, testimonianze, uomini — della Resistenza, furono donate all’ISTREVI. Le lettere d’argomento filologico e letterario, toccarono a noi dell’ Accademia.
Ma ‘politica’ è l’intera corrispondenza di Niccolini. Ciò, ovviamente, non significa diminuire il suo valore di filologo e di storico della cultura. Solo, una sorta di neutralità o ‘epoché’ a lui era impossibile: e anche quando i suoi interlocutori epistolari gli rispondono in termini che essi credono meramente pratico-professionali, noi non possiamo dimenticare che la loro lettera era stata sollecitata da un uomo la cui coscienza inquieta — suo vistoso dato caratteriale — alimentava un inestinguibile rovello etico-politico, mai pacificato. Sicché non ti stupirai del tenore di certe missive, in cui le patrie lettere proprio non c’entrano; ovvero, se c’entrano per qualcosa, esse sono tutte frementi di passione civica. Te ne addito appena una: la vera e propria requisitoria di Niccolini contro Natalino Sapegno all’indomani del fatti d’Ungheria. Atto d’accusa cui lo storico della letteratura risponde molto pacatamente.
Assai più consona alla serie dell’ISTREVI che al nostro ‘fondo’ accademico — dirà qualcuno. Ma per fortuna l’Accademia non è, come suole apparire, istituzione di mutuo incensamento, votato all’esercizio di innocua cultura celebrativa; e nemmeno un sottosuolo per talpe erudite, o un teatrino per incipriati abatini. Le Muse che noi coltiviamo, seppure prudenti e per lo più silenziose, sanno, saprebbero parlare. E non è detto che un giorno, anche prossimo, i cittadini non se ne accorgano.
In ogni caso quelle lettere — non è vero Vittorio? — noi ce le teniamo strette, non come intruse, ma come a casa propria: sicuri che c’è fra noi o nel vasto mondo chi saprà leggerle con intelligente e fruttuoso interesse. Rileggendole in controluce, vi si profilano gli Autori cari alla formazione di N., e sempre rimeditati: fra essi, solo in disparte, siede Francesco Guicciardini, che il cardinale di Richelieu molto amava e talora copiava. Ti trascrivo, salutandoti, un pensiero suo, che Niccolini aveva ben presente e che soleva citare: “Che mi rilieva a me che colui che mi offende lo faccia per ignoranza e non per malignità? Anzi, è spesso molto peggio, perché la malignità ha i fini suoi determinati e procede con le sue regole, e però non sempre offende quando può. Ma la ignoranza, non avendo né fine né regola né misura, procede furiosamente e dà mazzate da cechi”. Gianni.

P.S. A proposito. La asettica sedia gestatoria col cardinale Federigo assiso benedicente dentro una campana di vetro, in Manzoni non c’è. Ma è storia anch’essa.