Il «copialettere» di Gino Nogara

Pubblichiamo, in formato Pdf, l'inventario curato dall'accademico Giovanni Pellizzari del "copialettere" che Gino Nogara affidò a Fernando Bandini: un prezioso registro della corrispondenza inviata dallo scrittore vicentino fra il 1951 e il 1962, contenuto in cinque quaderni conservati nell'Archivio dell'Accademia.
Qui sotto, la premessa  a firma dello stesso prof. Pellizzari.

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NOTE SUL «COPIALETTERE» DI GINO NOGARA

di Giovanni Pellizzari
Accademico Olimpico

Gino Nogara (1921-1989) consegnò in un anno imprecisato a Fernando Bandini1 cinque grossi quaderni, dove aveva annotato regolarmente le lettere da lui spedite nell’arco d’un decennio, ora registrandone solo data e destinatario, ora scrivendovi la brutta copia, oppure incollandovi la velina del testo dattiloscritto. Sia evidentemente Nogara, sia anche Bandini, per avermelo egli decantato, ben prima che io avessi in mano questo lascito, gli attribuivano un valore documentario il cui pregio reale stenta per noi oggi a precisarsi.

Ci si può chiedere anzi se la ‘corrispondenza’ di Gino Nogara, per il solo fatto d’essere sopravvissuta in parte notevole all’Autore, possa pretendere una qualche forma di studio integrale. Se non è possibile salvare dall’oblio i barlumi della sua opera poetica, e le sue opache prove narrative, Nogara forse meriterebbe uno studio come instancabile collaboratore, dalla nicchia della sua provincia, di quotidiani e rotocalchi, di cui la ‘corrispondenza’ qui registrata fornirebbe nell’arco temporale 1951-1962 una bibliografia assai densa, se non completa: qui, se non m’inganno, egli potrebbe riservare, specie come intelligente recensore di libri e spettacoli, più d’una sorpresa. E il pubblicista vicentino ci ha lasciato –ma codesto è ben noto–un bel libro sulle rappresentazioni teatrali all’Olimpico2, che non solo è un egregio testo di consultazione, ma si giova d’un’esposizione attraente, ricca di motivi ed echi. Ma non possiamo illuderci che per questo sui cinque grossi quaderni di corrispondenza, cui il nostro inventario ragionato rinvia, si piegherà volentieri la testa d’uno studioso in perlustrazione di archivistici tesori e tesoretti inediti. In effetti, se stiamo allo spessore di Nogara come letterato, non si può immaginare ed auspicare altro che un agile profilo biografico, oggi mancante, che rimpolpasse e stemperasse insieme la scheda informativa della voce a lui dedicata da Vincenzo Caporale nel Dizionario biografico degli Italiani. Ad esso queste carte sarebbero fonte sovrabbondante, insieme, e difettiva. Dunque – salvo che non dessero materia e suggestioni a un narratore dai modi a noi ignoti – non distinguiamo nettamente l’utilità dei quaderni copialettere qui descritti: se non come fonte, mettiamo, per future ricerche di sociologia della letteratura, e del giornalismo culturale in specie: o per esplorazioni , o ricognizioni di non so quali dinamiche culturali, ed intellettuali, in atto nelle penombre provinciali, d’un provincia ‘bianca’ negli anni della ‘normalizzazione’ democristiana, e poi del ‘boom’ economico.

I quaderni di Nogara destano semmai, a chi abbia qualche familiarità col panorama delle lettere italiane del Dopoguerra – inclusi teatro e giornalismo – il desiderio delle lettere dei suoi corrispondenti. Basta scorrere qualche nome: Carlo Bo, Mario Pomilio, Luigi Compagnone, Michele Prisco, Giancarlo Vigorelli, Ennio Flaiano, Mario Pannunzio, Luigi Russo, Ungaretti, Leonardo Sciascia; e poi Diego Valeri, Piero Nardi, Giuseppe Berto, Elena Zareschi, Festa Campanile, Luigi Zampa, Giorgio Caproni, Piero Chiara, e altri ancora, poeti, attori, uomini di teatro, registi, narratori, giornalisti di fama.

Forse quelle lettere ci sono ancora: l’uomo che registrava con tanta precisione la propria attività epistolare difficilmente avrà distrutto la corrispondenza in arrivo, di tanti amici e conoscenti allora quotati e influenti, taluno illustre, la cui amicizia o considerazione egli sollecitava e propiziava con tanta capillare, entusiastica, seducente diplomazia. E perché avrebbe consegnato altrimenti a Fernando Bandini quei cinque grossi quaderni della sua ‘Corrispondenza’? A che farli conservare? Ma se l’altra faccia della corrispondenza – le lettere ricevute, grazie ai suoi grappoli di amicizie e relazioni, che i quaderni fotografano – se egli l’avesse conservata, siamo certi che da qualche parte la troveremmo raccolta in bell’ordine, anzi ordinatissima. E, sia pure il nostro un wishful thinking, non sarebbe lecito sperare di trovare la serie compatta delle sue collaborazioni, quali furono offerte ai tanti giornali, che spesso pubblicarono, mutilando, e spesso non pubblicarono?

Resta intanto questa raccolta delle sue: non impronta, o calco inerte, perché dalla loro successione che pare ormai immobile, si sprigiona, per chi legga, un fremito di vita, un fermento, una richiesta imperativa, o seduzione, difficile, se non impossibile da ignorare; il fermento, pronto, si direbbe, a lievitare in noi, che, a quei fotogrammi in sequenza forniamo, a spese nostre, leggendo, il moto, la vita, il mobile interesse, una qualche parvenza di futuro. Invitandoci, meglio: costringendoci alla contestualizzazione, sollecitandoci l’immaginazione, queste lettere aprono finestre, ci tengono di volta in volta sospesi al loro orizzonte presente, stabiliscono o suggeriscono trame; a tratti ci scopriamo a leggerle alle spalle dell’Autore come un romanzo epistolare di cui solo noi – non Nogara, imprigionato nella successione dei suoi orizzonti giornalieri – gustiamo, a spese delle vite degli altri, trame, intrecci, personaggi, ambienti, nodi, tensioni, progetti, illusioni: è il piacere parassitario e insidioso, che ci dà ogni scrittura un tempo utilitaria – la corrispondenza, in ispecie – quando non vi si cerchi semplicemente la conferma o la smentita ad una nostra costruzione mentale. Proustianamente rinviano, per chi abbia una certa età, all’Italia d’allora, a certe città, ad ambienti, a paesaggi, allora ‘magici’ densi d’un significato ora banalizzato. Per dire, il piccolo, sbilenco Altopiano di Tonezza, scoperto e valorizzato come villeggiatura chic da Fogazzaro; poi luogo di colonie montane tra le due guerre; ma rivalorizzato nel secondo dopoguerra, quando vi si accedeva ancora per la sua strada bianca, col gomitolo dei suoi tornanti, a picco sulla Val d’Astico, da Barcarola, percorsa da una corriera ansimante, sospesa, sembrava, ad ogni curva, nel vuoto minaccioso; e le pinete, la nascosta presenza del tragico Cimone, e sulle contrade sparse, la cuspide tagliente dello Spitz, il Picco Astore di Fogazzaro. Nogara, per un decennio e più, vi trovò, non solo d’estate, quasi una seconda patria montanara d’adozione, già allora appetita e spartita da congreghe affaristiche all’ombra della politica. Poi, quando il frammettente e ombroso scrittore ne ebbe abbastanza delle beghe, ch’egli stesso alimentava, come membro onorario della Pro Loco, fu la volta di S. Vito di Cadore.

Percepiamo, per minimi incidenti sintomatici e menzioni allusive, la Vicenza del secondo Dopoguerra, quella della ricostruzione, in cui sta crescendo rapidamente a dimensioni nazionale la figura del leader carismatico, amico e protettore di Nogara, Mariano Rumor. Pulviscolo evocativo solo per chi ci è vissuto allora: e che sembra invocare l’integrazione della colorita ed infomatissima memorialistica cittadina del nostro valoroso Walter Stefani.

E, per ritornare a Nogara e alla sua corrispondenza, intravvediamo, attraverso queste finestre illuminate, redazioni di quotidiani come «Il Popolo» e la sua ‘catena’ di giornali democristiani ; di rotocalchi, anche illustri, come «Il Mondo»: dove Nogara riesce industriosamente a mettere piede, ma poi ne resta sempre sull’uscio, per così dire, col cappello in mano. Ma per il solito, nelle sue quasi innumerevoli collaborazioni, egli è docile, sempre, finché si tratta di ottenere collaborazioni, e umilmente speranzoso; poi diventa insinuante, insistente piazzista di sé medesimo, sollecitante la sospirata pubblicazione di pezzi che sempre ritardano, e quando infine appaiono, gli sembrano sconciati malamente – quando non spariscano nel cestino; infine, eccolo puntiglioso postulante, e risentito irremovibile assillante creditore di compensi, sempre inferiori ai patti e alle attese. Vicenda che si ripete, coattivamente, al «Gazzettino», come al «Popolo; e così in tante altre redazioni, dove Nogara si sente più di casa, come in quella di «Leggere»; o del quotidiano «Il Giornale di Napoli», e del settimanale «Rotosei», oggi dimenticati. Vien fuori a sbalzo il carattere un po’ fissato, a tratti quasi macchiettistico, o tragicomico, di Nogara. Ma alle sue ebbrezze come alle malinconie, alla ritrosia, e agli scatti esasperati non doveva essere estranea la mai doma insidia della tisi – male repulsivo, e quanto più allora, chi ricordi la ripugnanza reticente e anche maligna con cui se ne parlava –,  il morbo che, retaggio per lui della guerra, dopo anni di remissione, e di silenzio, lo condannava, da un giorno all’altro, a interminabili avvilenti reclusioni fra le quattro mura d’una camera da letto. Tracce e sentori di malattia, richiamanti quelle altre notizie, intermittenti, di accidenti e situazioni di vita familiare dello scrittore –la moglie e figlia bambina, da un lato; all’altro, un padre incombente, con la sua bottega di orefice, cui pure Nogara forzatamente collabora. Accennerebbero di forza propria ad integrarsi, queste fugaci notizie e allusioni private, in una sceneggiatura indiziaria: fin troppo facile, probabilmente indiscreta – e quanto ingannevole, infine?

E fanno poi ressa altre impressioni fugaci, senza contesto, frammenti di sceneggiature aleatorie, supplite da lampi d’immaginazione, semi-oniriche. La redazione affollata, della «Fiera Letteraria», per esempio, dove regna perenne confusione e una certa anarchia: Nogara, da lontano, quando si tratta d’una recensione ad un suo libro, che tarda ad apparire, si permette persino, in epistola, di spadroneggiare.

Sia pure come postini, o ficcanaso, entriamo nelle case napoletane di Pomilio, di Compagnone, di Prisco, allora giovani di belle speranze: in quelle lettere che vanno e vengono fitte, alternate a qualche avventuroso e molto desiderato incontro personale, è impossibile non avvertire un sentimento di calda, solidale amicizia, sbocciata fra questi napoletani, della Napoli di Edoardo, di Marotta, di Croce, e il vicentino Nogara, che appartiene ad una diversa civiltà. Benché dopo lo slancio reciproco degli anni Cinquanta quest’agnizione e sodadilizio frateno si intepidiscano, Napoli incanta Nogara, si direbbe, proprio per la civiltà e facilità aperta degli affetti, schietti ed intensi, quanto forse tolleranti; almeno quelli dei suoi sodali scrittori, che sente fratelli. Il Dopoguerra, come una città dopo un terremoto, propiziava una facilità e un senso dei rapporti che non è il nostro; ma se Napoli gli va a genio, Roma non piace invece a Nogara; mai amata da lui, ma assai ambita, nelle sue redazioni e frequentazioni letterarie, e terrazze mondane: assai più che Milano; men che meno amata, si licet, la sua Vicenza, con i suoi stanziali e pigri intellettuali o mezzi intellettuali, pronti al riso maligno, all’invidia, al pettegolezzo, appunto provinciale, e clericale, – anche quando si atteggino a liberi pensatori ed engagé. L’eco della maldicenza e dello sfottò corrosivo degli ambienti colti cittadini si coglieva ancora nelle parole d’un Bandini ottantenne: che, nell’atto di improvvisare in una pubblica occasione un onesto ritratto dell’uomo Nogara – che era insieme un bilancio dello scrittore – rievocandone la curiosa, ansiosa, bulimica brama di premi letterari, riandava compiaciuto all’aneddotica su questa fissazione, bersaglio allora di facezie corrosive, a gara, tra lui e Virginio Scapin. Atteggiamento che il risentito scrittore doveva involontariamente alimentare, forse soprattutto col suo attivismo un po’ ingenuo e pasticcione.

Una spia dell’ostilità, nella sua specie più maligna e sorda, cittadina, affiora, attraverso questa corrispondenza, nella rubrica di Vigorelli, ‘Il Diavolo in salotto’, del settimanale «Tempo» dell’11/11/58, cui Nogara indirizza un breve asciutto ringraziamento per averlo difeso dalle accusa di immoralismo, mossagli da un vicentino Toni Menegato –insinuante, fra l’altro, essere Nogara “parente di prelati”, non so se per alludere ad una carriera facilitata da protezioni, o come un’aggravante per la asserita morbosità dei suoi temi narrativi.

Vi si profila, a tratti, e in compenso, in queste lettere, vivace nella Vicenza dei primi anni Cinquanta, quel ‘Calibano’, dapprima circolo informale di giovani, quasi appena usciti dalla guerra, assetati di nuovi orizzonti ed esperienze culturali, poi galleria d’arte, con l’imbarazzante incidente (il danneggiamento di una ceramica di Picasso), capitato proprio a lui, l’entusiasta/depressivo maldestro e attivissimo, precisino Nogara, che di incidenti, contrattempi, scalogne assortite è voluttuoso specialista, per sua stessa ammissione: così com’è imperterrito tessitore della propria ragnatela di rapporti importanti, lacerata di continuo da tensioni e rotture inopinate; e sempre fiducioso, e un po’ corrivo sfornatore di poesie, di racconti e di romanzi, nell’imbarazzo dei suoi ‘amici-patroni’, di fronte a prove letterarie non eccelse del loro protetto, affamato di recensioni e riconoscimenti, che sollecita in continuazione; e dalle sue rivendicazioni economiche, di cui essi, i patroni suoi e suoi garanti nelle direzioni dei giornali, finiscono per fare le spese epistolari.

Ma l’uomo sventato in certe cose, non mancava poi di accortezza e di ‘competenza sociale’: callido promotore di se medesimo e delle sue protezioni e relazioni, ne sapeva fare buon uso nella sua città e fuori. Di qui la sua autorevolezza, nutrita di entusiasmo e voglia spasmodica di emergere e d’affermarsi, ma anche di autentici e aggiornati interessi culturali: se fu a lungo presidente del Circolo del Cinema, ‘Il Mondo Nuovo’, sodalizio infiltrato e percorso da correnti elettriche: ambizioni personali, e tentativi di personali scalate e di cordate politiche più volte adombrati in queste lettere.

Mentre il primo protettore di Nogara risulta il paziente e bonario, oggi ingiustamente negletto Piero Nardi, lo zio di Mariano Rumor – in seguito, pare, un po’ snobbato, a torto, dal giovane rampante pubblicista, affetto da bovarismo letterario – sulle per noi sfocate amicizie e frequentazioni cittadine di Nogara sembra adergersi d’un paio di spanne il burbero Neri Pozza, facies mefistofelica, temuto dai collaboratori, talora brutale, misteriosamente autorevole anche presso ambienti così lontani da Vicenza, come l’aristocrazia intellettuale romana di Pannunzio. Non so collocare in un data precisa la sventola di Neri a Nogara, finito lungo disteso nell’atrio cementizio del Cinema Odeon, di cui è rimasta pettegola e compiaciuta memoria a Vicenza; certo si ruppe allora un’amicizia, che aveva avuto del sodalizio, per durata, sintonia d’interessi e di intese, e confidenze, e favori; e ne derivò, credo, la fine della sua attività di segretario e delegato a sovrintendere agli spettacoli del ‘Settembre vicentino’ dell’Accademia Olimpica; da ciò probabilmente il trasferimento ad Asolo di Nogara, che vi andò a finire i suoi non lunghi giorni; ma qui raccolgo dicerie cittadine. E a proposito: l’intraprendente a passione per il teatro di Nogara e le sue frequentazioni di spettacoli, in qualità di free lance giornalistico, gli avevano fruttato amicizie o facilità d’avvicinare e di intrattenere rapporti, qui documentati, con attori di grande spicco: Carlo D’Angelo ed Elena Zareschi fra tutti; ma la corrispondenza ci proietta anche qualche riverbero del Settembre vicentino all’Olimpico, nella sua prima – e alta – stagione, diretta con salda mano da Antonio Dalla Pozza.

Su altri climi, si rivela inopinata nel suo sorgere, quanto tenacissima poi, l’amicizia col paziente e servizievole Giancarlo Vigorelli, –ricordiamoci: allora era un potente nel mondo della ‘critica militante’ d’ispirazione cattolica —, anche se alla fine, anche il pieghevole critico finisce per spazientirsi della petulanza ansiosa dell’altro, ostinata nel pretendere dall’amico recensioni favorevoli, anzi entusiastiche per un romanzo non felice, e nel moltiplicare alla chetichella le collocazioni d’uno stesso articolo, promesso in esclusiva: tanto che il critico finisce col mollarlo; ma poi, vinto dalle proteste disperate d’amicizia del vicentino, eccolo di nuovo riammettere Nogara sotto la sua sua fattiva protezione. Un altro amico comprensivo e paziente è Montesanto, un altro, Pomilio. Altri, fiutato il caso, magari dopo una prima apertura di credito, si squagliano, come fanno Diego Valeri, Carlo Bo, Cimnaghi: non così un Luigi Russo. Ma non cessa di sorprendere la facilità di Nogara, o forse era tratto comune agli uomini di penna di quell’Italia, a legarsi, a procurare e procurarsi collaborazioni, a stringere amicizie personali, a farsi visita, ad indurre i propri amici a battersi, anche slealmente, per loro, negli, allora vivacissimi e vitali premi letterari. Come volta a volta fanno Piero Chiara, Vigorelli, Luzi, Caproni , Pomilio, Prisco. Oltre che il quasi conterraneo Ugo Fasolo, e Bino Rebellato. Le talora indiscrete pressioni del vicentino per ottenere un trattamento di favore in questo o quel premio gli procurarono, com’è comprensibile, anche qualche umiliazione: come accade con Facco de Lagarda, cui il nostro indirizza una lettera piccata (6/11/58). Ma chi avrebbe immaginato la qui documentata paziente disponibilità verso il talora assillante talora puerile vicentino, di Ennio Flaiano, di Piero Chiara, e di Leonardo Sciascia?

Non mancano, a contrasto, le ostilità, sofferte o denunciate, come quella della trista redazione vicentina del «Gazzettino», cui pure Nogara collabora per qualche anno, o del critico letterario del «Gazzettino» di Venezia: del giornale, inimicandosi anche la direzione veneziana, egli finirà per perdere la collaborazione, ad onta o proprio a causa d’un da lui minacciato intervento di Mariano Rumor. Ostile gli è Osvaldo Parise, padre (adottivo e protettivo) di Goffredo, vecchio fascista, chiamato a succedere all’ormai troppo laicamente ‘aperto’ Ghiotto alla direzione de «Il Giornale di Vicenza», negli anni della ‘normalizzazione’ democristiana post-bellica. Non amico gli si dimostra l’ambiente del «Popolo» di Bernabei, nonostante la protezione di Rumor. Sarebbe curioso l’inventario delle assenze: quasi totale quella di personaggi come Moravia, Vittorini, Gadda, Pasolini; in ambito vicentino o di vicentini nativi: di Cevese, Magagnato, Barioli, Piovene, Silvio Negro. Parise compare all’inizio, in una stroncatura epistolare del Prete bello, posto da Nogara a confronto sdegnato – sdegno umanamente non ingiustificato – con l’opera prima del suo concittadino, Il ragazzo morto. Di preti, specie vicentini, il cattolico Nogara però non parla. Apprezza invece P. Nazareno Fabbretti e corrisponde con lui, ed è fautore del gruppuscolo di collaboratori, stretti intorno al proprio concittadino Rienzo Colla e la sua «Locusta». Ma d’un certo sdoppiamento egli è pur consapevole, quando ha occasione di commentare con terzi la sua collaborazione al laicissimo «Mondo»: qualcuno, nell’ombra, gliela farà pagare, teme — come già accaduto in passato col «Ragguaglio» —; ma quando si accorge che quel che temeva è accaduto, il colpo non è perciò meno doloroso: tanto più doloroso in quanto tutto avviene, come in passato, per macchinazioni senza volto.

Fermiamoci qui. Archivista pro tempore dell’Accademia Olimpica, mi sono trovato un giorno a percorrere queste lettere, da troppi anni giacenti, coinvolto nell’intreccio e sviluppo dei loro casi, a prestare quasi coattivamente a queste tracce e simulacri d’una vita e di tante altre, prese nei suoi stessi giorni –a nomi noti, meno noti, ignoti—, un soffio fantasmatico, simile al ricordo. Se il lettore incuriosito vorrà scorrere l’inventario, e vi troverà qualche utilità o piacere, ne sarò lieto.

1 Si trattò, stando alle parole di Bandini, e salvo errore, d’un affidamento, non d’una donazione ‘inter vivos’. Comunque sia, il versamento all’Accademia, secondo l’intenzione di Nogara, fu perfezionato da Fernando Bandini, con accettazione da parte del consiglio accademico di Presidenza solo il 27/1/2012, e ivi si fa esplicita menzione della volontà degli eredi: devo la notizia alla cortesia dell’attuale Segretario dell’Accademia, prof. Mariano Nardello.

2 G.NOGARA, Cronache degli spettacoli nel teatro Olimpico di Vicenza dal 1585 al 1970, Vicenza, Accademia Olimpica, 1972.