Sia il suo nome Odisseo

IL QUARTO D'ORA ACCADEMICO
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Sia il suo nome Odisseo

di Maria Grazia Ciani
Già docente di Storia della tradizione classica all’Università di Padova

1. «… ma per seguir virtute e canoscenza». Ecco L’Odisseo, anzi l’Ulisse dantesco, che è entrato nel mito universale, l’uomo dall’ingegno superiore, ricco di iniziative, pieno di curiosità, avido di andare sempre più “oltre”, fino a sorpassare i limiti dell’umano. L’Ulisse pagano che il cristianissimo Dante è costretto a cacciare nell’Inferno, tra i dannati, anche se forse segretamente ammira. D’altra parte, non è Dante stesso a sfidare i segreti dell’universo celeste nel lungo e avventuroso cammino che dalla selva oscura lo conduce al fulgore divino davanti al quale però la fantasia arretra e il passo fatale non viene compiuto? Anche la nave di Ulisse naufraga davanti alla montagna del Purgatorio, ma la fiamma da cui proviene la sua voce narrante rimane impressa come simbolo della sua irrefrenabile avidità di scoperta e di conquista. Il paganesimo preserva Ulisse da ogni pentimento. Egli non rinnega la sua hybris e la sua fiamma arde in eterno in ogni uomo, anche nella profondità dell’animo di chi, come Dante, aspira agli immensi cieli negati ai credenti.

2. L’antica Grecia ha avuto cura di lasciarci i suoi capolavori letterari: molti sono andati perduti, è vero, ma altri si sospetta siano stati eliminati per non inquinare gli alti ideali e l’essenza suprema del messaggio che si voleva lasciare ai posteri. Iliade e Odissea sono le sentinelle del mondo occidentale. È probabile che abbiano assorbito molto della sapienza orientale, ma l’hanno del tutto assimilata e grecizzata. Iliade e Odissea, la guerra e la pace, i marchi incancellabili che ritmano l’esistenza umana. “Ira”, contesa, guerra sono le parole chiave dell’Iliade; “i patti di pace” concludono l’Odissea. Achille e Odisseo, i simboli di due opposte concezioni dell’uomo consegnate al mondo a venire. Tuttavia, tra l’uno e l’altro dei due poemi famosi – che dovrebbero rappresentare le due facce di un unico volto – intercorre un abisso, non solo temporale, come ipotizzano gli studiosi: una svolta epocale li separa e li proietta nel futuro al di là delle intenzioni di Omero stesso, o di chi per lui assemblò la storia dell’assedio di Troia e il ritorno in patria di Odisseo. Achille è Troia, anche se materialmente non la conquista a mano armata. Odisseo è Itaca, anche se Omero gli attribuisce, nell’Odissea, l’onore e la fama di “conquistatore di Troia”. Ma tra la morte di Achille e il ritorno in patria di Odisseo, molti sono i valori che vanno perduti: l’educazione aristocratica, l’onore, la gloria, lo scontro frontale, il valore, la pietà. A una lettura attenta e minuziosa tutto questo traspare attraverso le maglie serrate dell’esametro che – quali che fossero le intenzioni di Omero – non costituisce l’unica misura dei due poemi. Il ritmo è eguale, ma la tonalità cambia.

3. Chi era Achille? Un semidio, figlio della dea marina Teti, campione di eccellenza, personificazione dell’aristia. Senza di lui l’esercito acheo non regge l’assedio, solo con lui la città potrà essere vinta, anche se il destino ha deciso altrimenti. Chi era Odisseo? Un contadino, possiamo dire minimizzando, comunque un uomo indissolubilmente legato alla sua terra, alla famiglia, ma che aspira a diventare possidente, ad accumulare terreni, bestiame, ricchezze, a diventare la figura più eminente e autorevole della piccola isola – impervia e rocciosa – dove è nato e cresciuto. Un Don Gesualdo dei tempi suoi. Omero lo introduce nella flotta panellenica e ne fa un guerriero, un eroe al pari degli altri. E tuttavia diverso dagli altri, come se provenisse da “fuori”, da un mondo diverso, da una classe diversa. Guerriero, certo, accomunato ai compagni dagli stessi epiteti ( valoroso, ardito, divino ecc.), epiteti che si aggiungono a quelli che sembrano appartenergli per natura: equilibrato, ingegnoso, astuto, abile, intelligente (pari a Zeus per metis). Nell’Iliade si distingue non tanto per imprese clamorose, quanto per il controllo, la prudenza, il senso pratico, i ruoli “diplomatici” che gli vengono assegnati: ricondurre al sacerdote Crise la fanciulla Criseide, guidare l’ambasciata alla tenda di Achille per persuaderlo a deporre l’ira e a ritornare in battaglia, sedare le ribellioni, assistere in disparte al massacro notturno di Reso da parte di Diomede: non si sporca le mani di sangue, ma poco prima non ha esitato a uccidere Dolone, la spia inviata dai Troiani, e infine esortare gli Achei a rinforzarsi mangiando prima di riprendere la battaglia, quando Achille, fatta pace con Agamennone, smania per riprendere le armi e vendicare l’amato Patroclo.

4. Ricomparso Achille, Odisseo sembra scomparire dalla scena. Sappiamo che l’Iliade non finisce con la presa di Troia, ma con le fiamme del rogo di Ettore che comunque simboleggiano il trionfo di Achille, secondo quanto deciso dal fato (Achille ucciderà Ettore e dopo la morte di Ettore anche Troia cadrà). Quando il sipario si leva sull’Odissea, il passato è già tutto alle spalle e lo scopo del poema è quello di narrare uno dei ritorni più famosi, quello di Odisseo. Un ritorno lungo dieci anni , drammatico, doloroso, siglato da una formula ricorrente che lo dipinge come un susseguirsi di perdite, lutti («…navigammo in avanti col cuore afflitto…»). E tuttavia, i primi quattro libri del poema, noti anche con il nome di Telemachia, sono dedicati alla “presentazione” di Odisseo , il “conquistatore di Troia” (detto anche “distruttore di città”), valoroso come pochi altri, audace e soprattutto amato come uomo e ammirato per le sue gesta, compresa la mirabile ideazione del cavallo di legno. Nestore e Menelao non fanno che tesserne le lodi al figlio che chiede notizie sulla sua sorte. Metà dell’Odissea, fino al canto tredicesimo, lo proietta in un mondo fantastico, dove, tra rischi e pericoli, egli finisce sempre per trionfare, amato da donne divine (Circe, Calipso), vincitore di mostri e giganti, eccezionale visitatore del mondo infero, e tutto rivissuto in quella cornice incantata che è la terra dei Feaci, popolazione eletta ma misteriosa, costruttori di navi stupende ma navigatori per diporto, là dove una principessa, Nausicaa, figlia del re, trascorre come un sogno, come una fiaba, come una promessa di rinnovamento della vita ed è l’unica a lasciare una traccia nel cuore del capitano di ventura. Ma egli anela al ritorno, vuole rivedere la sua terra e poi anche morire, così Omero afferma più volte. È l’amore di Penelope che lo sostiene, dopo vent’anni? Forse. Ma non è del tutto credibile.

5. Quando, dopo vent’anni, i Feaci lo sbarcano a Itaca (addormentato, come in un sogno) e spariscono per sempre, Odisseo non è più l’eroe, il conquistatore di Troia, il signore di mille avventure: è davvero un “Nessuno” in terra nemica, dove un nuovo e diverso assedio lo attende, quello alla sua propria casa e ai suoi averi minacciati. La riconquista. Qui Odisseo è veramente un altro o forse veramente se stesso. La sua casa, i suoi beni, la brama di riavere tutto e di più, l’aspirazione a diventare veramente il re di quell’isola, dove già primeggiava vent’anni prima, e forse di estendere il suo dominio alle isole vicine, proprio quelle da dove sono piombati i principi per impadronirsi di tutto ciò che era suo. Non c’è espediente a cui egli non ricorra e lo scopo principale è la vendetta – illegale secondo l’antico codice d’onore perché i Proci non hanno sparso sangue umano – e Odisseo lo sa e tuttavia nulla lo frena e tutto il livore, il cinismo, la crudeltà abilmente dissimulati in vita vengono ora alla luce in quella che è la sua vera impresa, la sua vera guerra, l’unica a cui aderisce senza alcuna remora. La strage dei Proci, il supplizio di Melanzio, i piedi delle ancelle impiccate che oscillano nell’aria: ecco Odisseo, l’uomo dai mille volti e dai molti segreti. Difficile penetrare all’interno del suo animo: le sue lacrime più sincere sono per il cane Argo e per il padre Laerte, quando, nel podere “bello e ben coltivato” dove il vecchio ha consumato la sua vita, si inserisce un ricordo lontano: padre e figlio che percorrono il frutteto fiorente, i peri , i meli, i fichi, i filari di viti… un sogno lontano e ormai perduto per sempre, forse il sogno di Odisseo bambino, la vita semplice e paga, il benessere intorno e un popolo felice, come gli profetizza Tiresia nell’Ade.

6. Ma non sarà così. Omero ci consegna un Odisseo di misura eroica. Ne è prova l’assurda battaglia finale che egli intraprende con i genitori dei Proci uccisi e che viene provvidenzialmente interrotta da Atena. Ma quali saranno i patti di pace? Soprattutto dopo l’inutile uccisione di Eupite, padre del più bello e autorevole dei Proci, di Antinoo che fu il primo a morire? È l’eroe iliadico che Omero vuole resuscitare alla fine dell’Odissea? Certo, intorno a lui ha disegnato un’aureola che non gli appartiene. Tra le righe dell’Odissea trova posto anche la predizione funesta di Autolico, l’avo “ladro e spergiuro”, colui che tenne tra le braccia il neonato figlio della figlia e lo battezzò con queste parole: «…poiché io odio e sono odiato da molti… sia il suo nome Odisseo». Parole che scivolano via nell’ampia distesa del poema, ma che lasciano cadere un’ombra cupa sul suo protagonista. E davvero Odisseo, al di là di Omero, nei tragici e nelle leggende tramandate, divenne oggetto di repulsione e di disprezzo. Perché non era Achille, né Socrate, né Pericle. Perché non poteva essere definito deinos, l’uomo tragico che si erge contro il destino e fronteggia gli dei come in Sofocle. Perché era il prototipo dell’uomo tout-court con tutti i suoi pregi e difetti: che può essere saggio, sapiente, pietoso, ma anche feroce, infido e spietato. Tutto e il contrario di tutto.

7. Ma in ogni essere umano c’è una parte di bene e di male. Ben venga dunque anche la “virtute e canoscenza” generosamente attribuiti da Dante al “suo” Ulisse, purché non si scordi la serpentina ambivalenza dell’Odisseo omerico. In ognuno di noi c’è una parte di lui. Per questo il suo mito non potrà morire.