Navigando in acque sconosciute

IL QUARTO D'ORA ACCADEMICO
#iorestoacasa

di Adriano Benedetti
Già ambasciatore

Navigando in acque sconosciute

Sono due essenzialmente i motivi che mi hanno indotto ad aderire all’iniziativa dell’Accademia Olimpica che, attraverso l’istituzione del “quarto d’ora accademico”, sollecita dei contributi individuali che possano rendere meno intollerabile il momento drammatico che stiamo vivendo. Il primo è la lettera, straordinaria per nobiltà, equilibrio e profondità, che il Presidente Gaetano Thiene ha indirizzato a tutti i membri dell’Accademia alcune settimane fa. Tale lettera merita che ci sia un tentativo di compresenza “simpatetica” da parte degli accademici. Il secondo motivo attiene al fatto che, vivendo stabilmente a Roma, non sono in grado di partecipare attivamente – come vorrei – alla vita dell’Accademia. L’iniziativa mi offre così l’occasione di fornire un apporto, per quanto minimo e modesto, di esperienza e di approfondimento anche per dimostrare agli ormai non molti amici che mi rimangono a Vicenza che, nonostante la lontananza che si protrae da oltre cinque decenni e le varie peregrinazioni, le mie radici rimangono saldamente ancorate nel vissuto culturale e civile di Vicenza.
Tratteggio qui di seguito alcune riflessioni, da osservatore della realtà internazionale e del nostro Paese, che mi ha suggerito la grave emergenza da Coronavirus attraverso cui stiamo transitando.

1- Credo che due immagini rimarranno impresse nella memoria di questa crisi. Innanzitutto quella di Papa Francesco che si rivolge alla piazza San Pietro del tutto vuota in una serata silenziosa e piovosa. È il simbolo della solitudine dell’umanità davanti alla prova e alla morte. L’invocazione del Pontefice al Creatore affinché protegga dall’alto i Suoi figli è apparsa tanto intensa e commovente quanto, agli occhi dell’uomo/donna del nuovo millennio, problematica nel raggiungere il suo alto scopo. La fede, negli ultimi decenni e per lo meno per quanto riguarda l’Europa, si è affievolita contrastata dall’immanenza del consumismo e dal prevalere della presunzione di ergere l’uomo a divinità.
Ricordo un altro momento di altrettanta, grande emozione allorché Paolo VI si rivolse all’Onnipotente, con parole di struggente preghiera, affinché Aldo Moro potesse essere restituito vivo alla sua famiglia. Anche in quella occasione si rinveniva nell’implorazione del Pontefice la consapevolezza della fragilità della speranza umana. Da qui il pensiero si spinge alla nozione della “sordità di Dio”. Ma nell’impossibilità di dare una risposta al quesito lancinante, soccorre una domanda inversa: non è che in realtà sia l’uomo a manifestare sordità al messaggio divino?
L’altra immagine è quella degli autocarri militari che, in lunga teoria, trasportano le bare di – per noi – ignoti concittadini che hanno perduto la vita lottando contro la pandemia: soli davanti alla sofferenza e alla morte, privati del conforto della vicinanza di parenti ed amici nel momento non solo del trapasso ma anche dell’estremo saluto. Ancora una volta si ripresenta la solitudine dell’essere umano nella sua vicenda terrena e in occasione dell’annichilimento corporeo.
Non riesco ad intravvedere con sicurezza le conseguenze della presente drammatica crisi sul futuro del sentimento religioso degli italiani e degli europei. Una possibile tendenza mi pare però di poter rilevare, quella di una pausa, forse, nella spericolata corsa verso l’esaltazione della capacità – anzi del diritto – dell’uomo/donna di porsi a fattore e giudice della vita e della morte: un esercizio di umiltà nell’imperscrutabilità del destino umano.
La storia ricorda con precisione di dettagli il terribile sisma che colpì Lisbona nel 1755 e l’impatto notevolissimo che ebbe sull’opinione pubblica europea dell’epoca. Il trauma fu però di breve durata talché, qualche decennio più tardi, riprese l’ondata dell’ottimismo europeo sorretto dall’orgoglio illuministico che, nonostante le convulsioni del ‘700 e ‘800, si consolidò nella convinzione “positivistica” del progresso secondo un andamento lineare. Solo la tragedia di due guerre mondiali in un trentennio infranse quel sogno. Che però, in qualche modo, riaffiorò lentamente nel secondo dopoguerra per inorgoglirsi, sullo sfondo peraltro di un disincantato scetticismo esistenziale, nell’esplosione degli ultimi due decenni della tecnologia e delle scienze applicate alla vita. Spettacolo emozionante dell’inesauribile capacità di rilancio dell’uomo ma anche presagio degli esiti possibili della sua superbia.
2- Da quanto si può capire dello svolgimento della crisi epidemica in Italia, a metà del presumibile cammino virale, il nostro paese ne sta uscendo molto meglio di quanto ci si potesse aspettare all’inizio: una capacità di resilienza insospettata; una reazione delle autorità a tutti i livelli forte e coraggiosa al di là degli inevitabili ritardi, errori, polemiche, contraddizioni e sbavature; una risposta di straordinaria solidarietà ed impegno da parte del personale medico e sanitario, anche di quello a riposo che ha accolto gli appelli pressanti a rientrare in servizio; una dimostrazione di autentica umanità nell’attestare il diritto di tutti, a cominciare dai più deboli perché anziani, a ricevere le cure necessarie nella lotta per la sopravvivenza. È un corredo confortante di fiduciosa solidità che ci sarà quanto mai utile nell’affrontare le incognite del post-pandemia. Ce ne sarà senz’altro bisogno. Perché non sappiamo verso quali difficoltà di aggiustamento degli assetti politici, anche istituzionali, andiamo incontro. Nessuna previsione è a questo punto possibile. Confusamente intuiamo che le pressioni sul sistema, nel cercare di far fronte alle inevitabili dislocazioni soprattutto economiche e sociali, saranno fortissime. La ferma speranza è che la nostra democrazia liberale non subisca attentati rovinosi.

Sul fronte della ripresa economica impera la stessa incertezza di prospettive, ma non quella sull’entità dei guasti – importantissimi ancorché ora non valutabili con sufficiente approssimazione – provocati al nostro apparato produttivo. Questa crisi ha colpito un paese già fragile a seguito delle difficoltà sistemiche apparse nell’economia occidentale nel 2008, difficoltà che l’Italia non aveva ancora completamente superato. La nostra fragilità, che si traduce fra l’altro in una ancora alta disoccupazione e una insuperabile “fiacchezza” nella crescita, è dovuta soprattutto alla precarietà dei nostri conti pubblici. L’elevatezza del debito dello Stato è fra le più cospicue nel mondo e il nostro futuro è strettamente legato alla fiducia che ci concederanno i mercati internazionali. Il contraccolpo della nuova crisi sull’ammontare del debito pubblico sarà a dir poco dirompente. Non sarà difficile trovare i capitali per avviare la ripresa ma il prevedibile tasso di interesse più alto andrà ad aggravare ulteriormente il già pesante servizio del debito. Continueremo ad essere in grado di onorare il rimborso del debito?
Nessuno ancora lo dice apertamente ma ci dovremo adattare all’idea di dover contribuire con maggiori imposte e tasse alle crescenti esigenze del debito pubblico: spostare risorse dalle tasche private alle casse dello Stato esauste anche per l’effetto dell’inaccettabile, vergognosa evasione fiscale. Tutte queste facilmente prevedibili conseguenze retroagiranno a loro volto sulle sopra accennate aleatorietà e fragilità degli equilibri politici.
In sintesi, il nostro paradigma economico vedrà una accresciuta presenza dello Stato, mentre a livello globale il sistema neo-liberista, prevalente negli ultimi quaranta anni, conoscerà un più o meno rapido tramonto. La globalizzazione subirà un severo contenimento, e vi potrà essere auspicabilmente, nel processo di ristrutturazione degli apparati produttivi, un ripensamento profondo sulla necessità di ri-orientare l’economia in funzione del rispetto delle esigenze ambientali.
3- L’emergenza da coronavirus ha “nazionalizzato” gli interventi e le mentalità. È di palmare evidenza che la crisi, pur provenendo dall’esterno, si è cristallizzata entro i confini di ogni paese, che ivi si sono adottati provvedimenti drastici per chiudere le frontiere, che sono le autorità nazionali ad essere state in grado di correre ai ripari e di fornire assistenza. La dimensione nazionale uscirà rinvigorita ed accentuata dalla presente crisi. Ne risentirà probabilmente l’Unione europea nella sua proiezione sovranazionale.
L’Unione è arrivata a questa prova con la sua natura bifronte, incapace di definirsi: una federazione o una semplice coalizione di stati che ha messo in gestione comune talune attività. Alla prima porta la moneta unica, alla seconda la regola dell’unanimità nell’assunzione delle decisioni e la prassi degli ultimi dieci anni di spostare il baricentro politico sull’asse intergovernativo piuttosto che su quello comunitario delle istituzioni. La drammaticità della situazione attuale potrebbe costituire l’occasione per dare una spinta sostanziosa verso la sovranazionalità in vista della prefigurazione di una vera e propria federazione di stati. Non sappiamo ancora come evolverà la risposta di Bruxelles rispetto alle pressanti istanze che provengono soprattutto da Italia, Francia e Spagna, volte ad ottenere finanziamenti con la garanzia solidale di tutti gli Stati-membri, ma soprattutto di Germania, Olanda e degli stati nordici che godono di una capacità di indebitarsi a condizioni più facilitate che non le nostre. Sembra però ragionevole anticipare, tenuto conto delle prime reazioni, una risposta negativa anche se assortita con altre apprezzabili iniziative di apertura da parte della Commissione e delle altre istituzioni europee per attutire il colpo. È così possibile che quanti auspicavano un salto di qualità definitivo nella costruzione europea rimangano ancora una volta delusi.
Sarebbero in questo caso fuori luogo lamentazioni e recriminazioni contro le nazioni del nord che si sarebbero invece solo limitate a riconoscere la insussistenza di un vincolo con gli altri membri dell’Unione tale da giustificare la presa in carico di oneri, per quanto contenuti, di cui avrebbero beneficiato altri paesi. È il semplice riconoscimento di un dato di fatto che per tanti anni era stato oscurato da retorica, generose illusioni e sogni volenterosi.
L’Unione europea, anche se priva di un accresciuto sostegno in senso federale, continuerà a svolgere comunque il suo ruolo azionato in particolare dalla moneta comune. Ma come si era accennato in precedenza, l’intensità dei contraccolpi sulle economie nazionali, in termini di deficit, disoccupazione, fallimenti di imprese e di rallentamento degli scambi, avrà certamente la forza di mettere sotto pressione gli attuali equilibri politici ed istituzionali europei. La sfida sarà allora, non già di operare per una impossibile trasformazione verso una sempre maggiore integrazione, bensì quella di evitare successivi smantellamenti dell’edificio europeo. Se a questo si addivenisse, l’Europa si troverebbe sempre più frammentata, indifesa ed esposta ai venti ignoti della storia.
4- La tendenza alla “nazionalizzazione”, di cui si è fatto sopra cenno, porterà ad un naturale rinserrarsi degli stati in sé stessi, proprio quando sarebbe più necessario approfondire i legami della cooperazione internazionale. Ma con il tempo tale tendenza potrà esaurirsi. I rapporti di forza tra le grandi potenze non dovrebbero subire alterazioni di rilievo. Si potrà verificare una certa pausa parziale nella dinamica dei conflitti locali e la lotta al sottosviluppo, come anche i flussi migratori irregolari, dovrebbero registrare verosimilmente un qualche arresto. La speranza è che la pandemia non si accanisca sull’Africa, priva di strutture adeguate, che altrimenti soffrirebbe un altro fatale intoppo nel suo decennale sforzo verso una qualche emancipazione.
Un lineamento, infine, che potrebbe affacciarsi riguarda la competizione tra paesi liberal-democratici e sistemi dittatoriali e autoritari. Come è noto, nell’ultimo decennio la democrazia in senso occidentale si è affievolita nel mondo e si è avuto un ritorno in forza dei regimi basati sulla negazione dei diritti umani, soprattutto di quelli politici e civili,che hanno acquisito nuova baldanza e capacità di iniziativa internazionale. Le prime fasi della pandemia hanno mostrato, per necessità di cose, una maggiore attitudine di tali regimi a controllare la diffusione del virus rispetto a quelli liberal-democratici, ovviamente più riluttanti ad imporre misure draconiane di limitazione della libertà dei cittadini. È anche possibile che la nuova disastrata situazione economico-sociale, con l’espandersi del ruolo dello Stato, conduca ad un rafforzamento del potere esecutivo a danno delle prerogative del parlamenti e dei diritti dei cittadini, nonché ad una erosione degli istituti liberal-democratici. Se ciò avvenisse, tale sviluppo costituirebbe il peggior lascito che la presente emergenza affiderebbe alla nostra e alla futura generazione.