I viaggi in una stanza di Paolina Leopardi

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I viaggi in una stanza di Paolina Leopardi
In tempi di coronavirus

di Adriana Chemello
Università di Padova - Dipartimento di Studi Linguistici e Letterari

In queste settimane di “confinamento” domestico per l’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, e di distanziamento sociale che costringe tutti a pensarsi soli, in uno strabismo percettivo tra un futuro prossimo non prevedibile e lo sfinimento di una dimensione temporale ibernata in un presente disincarnato, sono riandata spesso con la mente ad una figura di donna costretta, suo malgrado, dalle rigide imposizioni materne e dalle convenzioni sociali del tempo, a consumare gran parte della sua esistenza in una condizione che potremmo definire “claustrale”, dentro il recinto del palazzo di famiglia a Recanati.
Così rivolgendomi all’indietro per comprendere il presente ho incrociato lo sguardo e le parole di Paolina Leopardi e ho compreso che il passato, a tratti, ci cammina accanto e ci sfiora come fosse presente.
Nella storia e nella letteratura, come nelle arti e nelle scienze, ci troviamo di fronte a dei vuoti: mancano «le vite non registrate delle donne». Là dove se ne conserva qualche labile traccia, dalla Bibbia in avanti, sono menzionate come ‘madri di’, ‘figlie di’, ‘mogli di’, ecc. Tuttavia, a saperli interrogare da una corretta angolazione, come hanno fatto negli ultimi 30-40 anni tante storiche e letterate, con acribia e perspicacia, prendendosi cura anche delle figure “laterali” oltre a quelle del capostipite e/o del paterfamilias, gli Archivi privati e pubblici e le Biblioteche hanno fatto affiorare tante “carte di donne”, “carte parlanti” per chi abbia saputo interrogarle e auscultarne i segreti.
Le donne hanno scritto e hanno lasciato traccia (seppur “laterale” e per tanti secoli resa invisibile) della loro esistenza.
Una modalità di scrittura ampiamente praticata dalle donne fin dai tempi remoti, che continua a restituirci vite o frammenti di vite taciute o dimenticate, a togliere dall’ombra e riportare alla luce figure reali di donne con i loro sentimenti, i desideri e le aspirazioni ad agire i propri spazi di libertà, è la lettera. Numerosi sono i carteggi, gli epistolari, le lettere che le donne hanno scambiato con altre donne o con parenti più o meno prossimi e amici o letterati del loro tempo, dove le lettere raccontano altrettante “storie” e si possono leggere come un succedersi di istantanee fissate da una testimone oculare, più o meno imparziale, capace di penetrare negli interstizi di quelle storie per restituirci un punto di vista insolito, imprevisto, a tratti geniale, della/sulla vita di chi scrive.
È il caso delle numerosissime lettere spedite e ricevute da Paolina Leopardi, sorella di Giacomo, una figura percepita come opaca e appartata, che nei nostri ricordi scolastici riusciamo a mala pena ad associare alla canzone a lei dedicata dal fratello, Nelle nozze della sorella Paolina, composta nell’autunno del 1821, nell’imminenza del matrimonio con l’urbinate Pietro Peroli, poi naufragato per questioni legate alla dote.
Terzogenita di Monaldo (1776-1847) e di Adelaide Antici (1778-1857), Paolina era cresciuta e si era formata sotto l’attenta sorveglianza del padre e dell’abate precettore Sebastiano Sanchini: «Noi fratelli ricevemmo in casa una severa educazione forse migliore di quella dei collegi. La nostra biblioteca e l’amore di nostro padre agli studi tennero luogo di maestri insigni e di esempi». Padroneggiava benissimo il latino, leggeva con facilità i classici e la Bibbia, aveva mostrato di eccellere in diverse discipline, in particolare aveva ottima dimestichezza con la lingua francese, e già a dodici anni iniziava la sua attività di «copista», prestando a Giacomo la sua mano e parte del suo tempo nella trascrizione di suoi componimenti e di suoi appunti. Questa pratica di «copista» per conto del fratello, protrattasi negli anni, riscuoteva spesso forti manifestazioni di riconoscenza da parte del fratello maggiore.
Paolina ha trascorso gran parte della sua vita appartata, quasi reclusa nelle buie stanze di Palazzo Leopardi a Recanati, dedicandosi agli studi ed è stata un’appassionata lettrice, come si evince dai numerosi quaderni conservati, dove appuntava scrupolosamente i titoli dei libri che veniva leggendo, soprattutto «libri moderni», cioè romanzi da cui trascriveva pensieri, citazioni e frasi significative. In questi quaderni che compilò fino al 1867, sono registrati ben 2043 libri letti, con una media di 43 libri per ogni anno. Data la lieve differenza d’età che li separava, Paolina era molto legata a Giacomo, con cui condivise ben trenta anni della sua vita, dai gioiosi giochi infantili alla sofferenza per l’isolamento della natia Recanati, rispetto ai centri culturali e artistici del tempo. In una lettera del 19 marzo 1823, Giacomo si rivolge all’amata Pilla, appellandola «erudita Signorina», e si compiace perché è «istruita al di sopra di quattro quinti delle vostre pari».
Per superare la malinconia e la solitudine della forzata reclusione, soprattutto dopo la partenza di Giacomo da Recanati, Paolina intensifica il suo lavoro intellettuale e creativo. La lettura e la scrittura diventano per lei la musa serenatrice dentro quello che percepisce come un vero e proprio «carcere» familiare. Oltre alle collaborazioni alla «Voce della Verità», periodico modenese a cui collabora anche Monaldo, dove pubblica più di trecento articoli, Paolina è parte attiva nell’impresa giornalistica voluta dal padre con la «Voce della Ragione. Giornale filosofico, teologico, politico, istorico e letterario», il cui primo fascicolo esce il 31 maggio 1832. Si conferma nel tempo collaboratrice assidua di questo giornale, dove figurano ben 227 articoli e recensioni varie a sua firma, fino ad assumerne il ruolo di redattrice-capo.
Riunite per la prima volta in un volume, curato da Elisabetta Benucci (P. Leopardi, Lettere (1822-1869), Sesto Fiorentino, Apice Libri, 2018), possiamo ora leggere le numerose corrispondenze di Paolina Leopardi che ci restituiscono il «ritratto» di una donna colta, lettrice raffinata e appassionata non solo di libri ma anche di giornali, gazzette e riviste di vario genere, traduttrice provetta dal francese, che acquista con il passare degli anni consapevolezza di sé come donna. Scrivere lettere era per lei una forma di evasione, ma anche una modalità per tenere i legami con il mondo.
Le lettere di Paolina ad alcune coetanee ed amiche ‘di penna’, Marianna e Anna Brighenti e Antonietta Tommasini, amiche bolognesi del fratello, nonostante le restrizioni imposte dalle rigide regole familiari [«Il commercio epistolare non è molto amato nella mia famiglia, o almeno non si vorrebbe che lo coltivassero i più giovani»], svelano una dimensione familiare, intima (assolutamente inedita), lumeggiando tratti della personalità di chi scrive, e nel contempo le convenzioni sociali degli anni che fanno da sfondo al carteggio, con le limitazioni e i divieti a cui la giovane donna doveva sottostare.

Lettera ad Antonietta del 31 ottobre 1833

Viene, per esempio, svelato lo stratagemma messo in atto da Paolina per aggirare il divieto materno ad intrattenere «commercio epistolare» con il mondo, come apprendiamo da una lettera di lei a Marianna Brighenti, giovane cantante molto apprezzata anche da Giacomo:

Quanto mai mi sieno care le tue lettere io non te lo posso esprimere, una viva gioia, una ineffabile gioia mi prende il cuore quando vedo il segnale di avviso che la tua lettera è giunta. Debbono però scorrere molte ore prima che io l’abbia in mano, perché una cosa che si potrebbe quasi prendere dal muro del nostro giardino alla finestra opposta con le mani proprie, fa duopo che il mio confidente vada a prenderla di notte per non esser veduto. Poi egli viene in libreria e mi consegna la tua carissima che io prendo con una ansietà inesprimibile, ci leggo le care tue parole (pp. 210-211).

Il carteggio con le sorelle Anna e Marianna Brighenti ha un’estensione temporale di ben trentasette anni: in questo lungo arco di tempo, le corrispondenti si incontrarono una sola volta, dopo trentacinque anni e dopo ben centosessantacinque lettere scambiate. Così gli scambi epistolari con Antonietta Tommasini, conosciuta grazie alla mediazione del fratello Giacomo, sterilizzano ogni eventuale pulsione narcisistica per ribadire la consueta modestia e automoderazione femminile nel riscontrare il ‘dono’ di un libretto di Pensieri di argomento morale e letterario della sua interlocutrice: «Io non sono affatto capace di giudicare delle opere di letteratura; ma ecciterà sempre la mia ammirazione ed invidia qualunque persona del nostro sesso, che mostrerà che noi non siamo nate soltanto per quello cui ci credono destinate gli uomini […]» (p. 159). Nel contempo le rende onore il compiacimento per i successi letterari dell’amica di penna, nella consapevolezza della scarsa considerazione in cui erano tenute le donne e le donne colte in particolare.
Le lettere di Paolina hanno un valore documentario nel farci conoscere la rete di relazioni amicali e intellettuali poste in essere con determinazione e coraggio, e, nel contempo, offrono l’opportunità di ricostruire la cartografia dei sentimenti di una generazione di donne duramente limitate nella loro espressione, oltre che nella libertà di movimento. Attraverso le lettere è possibile ridisegnare una biografia straordinaria della sorella del “giovane geniale”, restituendo il “ritratto in piedi” di una figura rimasta finora in ombra, ridotta ad una dimensione minuscola di “sorella di”.
Esplorandone gli scritti e le traduzioni, oltre alla foltissima prosa epistolare, si possono percepire e analizzare le influenze emotive, intellettuali, sociali della “sorella” di Giacomo che, a differenza della sorella di Shakespeare, plasmata dalla penna di Virginia Woolf, nel celebre saggio A Room of One’s Own, ha un’anima e vive non solo nella finzione letteraria ma proprio attraverso le tante lettere spedite e arrivate a Recanati, nonostante i rigidi divieti e le austere prescrizioni materne. Una madre, Adelaide Antici, che Paolina bonariamente rappresentava come un «vero eccesso di perfezione cristiana».
Paolina Leopardi ci appare, attraverso le sue prose, una donna coraggiosa, consapevole delle diseguaglianze, delle ingiustizie, delle sottrazioni che la colpivano in quanto donna, una donna che non si è lasciata consumare e distruggere dalla sofferenza e dal dolore, né abbattere dalla solitudine, soprattutto dopo la separazione dal fratello Giacomo, bensì ha saputo esercitare una forma di resilienza, coltivando con determinazione la libertà della mente. Stimolata in giovinezza dalla presenza del fratello, ha coltivato gli studi delle humanae litterae, impegnandosi in traduzioni di testi vari, intrecciando relazioni con letterati, ma anche donne colte e artiste del suo tempo. Le lettere di Paolina, rispetto alla famiglia Leopardi, rappresentano un punto di convergenza dove tutto si incontra: la politica, la cultura, l’arte e la musica. Non sorprende l’attenzione per ciò che accade nel mondo e il tenersi aggiornata attraverso le gazzette. Non mancano del resto espressioni di disincanto nei confronti delle stesse gazzette e della politica di Pio IX, recatosi in pellegrinaggio nella vicina Loreto nel maggio 1857: «Bisogna credere con moderazione agli applausi che, dicesi, riceve il pontefice – un silenzio glaciale lo accompagna in ogni luogo» (p. 458).
Nel novembre-dicembre 1832 Paolina pubblica con un editore di Pesaro il suo primo libro: Viaggio notturno intorno alla mia camera, prima traduzione italiana dell’Expédition nocturne autour de ma chambre di Xavier de Maistre.
De Maistre aveva composto l’operetta nel 1790, in una contingenza particolare della sua vita, quando gli erano stati inflitti quarantadue giorni di «arresti di fortezza» (arresti domiciliari) nella cittadella di Torino, dove prestava servizio nel reggimento di fanteria, avendo ingaggiato un duello per motivi d’onore con un ufficiale. Costretto ad una «quarantena» forzata, per punizione, si distrae scrivendo una specie di dialogo dell’anima, scandito in quarantadue capitoletti (tanti quanti i giorni della sua quarantena), mettendo in parola i sentimenti, i pensieri che le particolari circostanze di isolamento dal mondo gli suggerivano. Questa prima redazione viene poi ripresa nell’ottobre 1799 modificata nel titolo (Expédition nocturne) che confluisce nelle Oeuvres complètes, pubblicate in Francia nel 1825 in prima edizione, e nel 1829-1830 in una seconda edizione.
Nella condizione descritta da de Maistre, Paolina finisce per proiettare, sovrapponendola, la sua condizione claustrale di «reclusa», lei che tanto avrebbe desiderato viaggiare e vedere il mondo oltre il confine recanatese. Ma quella lettura l’appassiona e la coinvolge perché scopre, attraverso il testo di de Maistre, la possibilità di librarsi con la mente ben oltre il recinto della sua stanza, dando libero spazio alla sua immaginazione. Così da «affascinata traduttrice» ne diventa «consapevole interprete». «Sospirando nella sua camera» - come scrive in una lettera ad un’amica di penna – Paolina, sulle tracce di de Maistre, può provare «emozioni deliziose» immergendosi nelle bellezze della natura o assaporando le emozioni forti provocate da fenomeni atmosferici come i temporali estivi. Così il viaggio del pensiero la conduce per mano, e nel silenzio della solitudine s’immerge nella contemplazione dell’universo; lasciando briglia sciolta alla sua immaginazione supera lo sconforto, dimentica i mali e le tristezze della sua vita da reclusa. La traduzione di quell’operetta diventa per lei un balsamo benefico. Paolina riesce così, senza allontanarsi dalla sua stanza, a percorrere con la mente itinerari fantastici, a viaggiare nello spazio, suggestionata dai resoconti di viaggio del fratello Giacomo o delle sorelle Brighenti. Un’esperienza intellettuale condivisa che l’aiuta a vivere, che la ritempra nello spirito, rendendola più forte nell’affrontare giorno per giorno la sua esistenza contristata in Recanati.
Quando nell’estate 1835 scoppia un’epidemia di colera, Paolina si rivolge all’amica Marianna Brighenti in una lettera del 9 agosto 1835, con toni pacati, quasi rassicuranti:

Non ti dirò niente della tristezza infusa dal timore del cholera: già non si deve aver paura, e per me io non l’ho, perché il morire non mi spaventa, mi spaventa bensì il veder morire (p. 273).

E qualche mese più tardi, in una lettera indirizzata alla cugina Vittoria Lazzari, il primo marzo 1836, riprende lo stesso concetto:

E non credere già ch’io abbia paura di morire, ma ho gran paura di veder morire, e il tempo di una epidemia è tempo di morte anche per chi non muore (p. 284).

Pochi mesi dopo la morte del fratello Giacomo (14 giugno 1837), Paolina pubblica il libretto intitolato Mozart, una breve biografia letteraria del celebre musicista di Salisburgo, in realtà un omaggio sororale all’amatissimo fratello da poco scomparso. Ancora una volta una traduzione dal francese, come scrive in una lettera ad Anna Brighenti: «Lessi la vita di Mozart in francese, una volta, e la ridussi in italiano». Il testo viene pubblicato anonimo in Bologna, in occasione delle nozze fra il conte Antonio Carradori Flamini e la principessa Laura Simonetti di Osimo. Una traduzione molto apprezzata, se Prospero Viani nel ringraziarla per il dono del «libriccino tradotto», le scrive: «ella ha il pregio raro e grande di dare un’aria originale alle traduzioni; la qual cosa mi pare vittoria delle maggiori difficoltà».
Sorprende e colpisce il coraggio con cui Paolina, dopo la morte della madre, diventa padrona del proprio destino e si mette nel mondo, conquistando quella libertà di movimento che le era stata negata: quasi una forma di trasgressione, seppur tardiva, concedendosi gli agi e le distrazioni che il rigore materno le aveva sempre precluso. Ormai sessantenne, acquista vestiti raffinati e alla moda, si dedica a concerti, spettacoli teatrali e tanti viaggi, soprattutto un affettuoso pellegrinaggio sui luoghi che il fratello Giacomo aveva amato. Fino a concludere la sua esistenza proprio in un albergo sul Lungarno di Pisa, dove lo stesso Giacomo aveva soggiornato.
Le oltre quattrocento Lettere di Paolina, accanto alle prose varie e alle traduzioni, fanno luce su episodi poco noti e sfatano luoghi comuni sulla sorella del grande ‘genio’. La sua figura esce finalmente dall’opacità e le restituisce il vero profilo di donna colta e insuperabile traduttrice, seppur a centocinquant’anni dalla sua morte.

Lettera del 18 luglio 1837

Lettera del 28 febbraio 1860

Lettera del 3 giugno 1868