Due unicorni nella chiesa di Santa Corona

IL QUARTO D'ORA ACCADEMICO
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Noterelle di iconografia vicentina: due unicorni nella chiesa di Santa Corona

di Giovanna Dalla Pozza Peruffo
Storica dell'arte

L'altare Garzadori (foto Claudio Gioseffi)

Nella chiesa di Santa Corona a Vicenza l’altare Garzadori appare come un monumentale, fastoso arco di trionfo impalcato per ospitare la pala di Giovanni Bellini con il Battesimo di Cristo.
L’altare, intitolato a san Giovanni Battista, fu voluto da Giovan Battista Graziani Garzadori di ritorno dal pellegrinaggio in Palestina per un voto da lui pronunciato proprio in riva al fiume Giordano. La costruzione fu affidata a Rocco da Vicenza durò alcuni decenni, dal 1500 (anno in cui il Graziani acquisì dai domenicani lo spazio per una cappella) al 1550 circa, ma completata dalla fiorente bottega dei lapicidi di Pedemuro San Biagio. L’opera venne infatti interrotta sia per la crisi del dominio veneto conseguente agli effetti della disastrosa Lega di Cambrai sia per la partenza per un esilio senza ritorno in Umbria e nelle Marche del ventitreenne architetto.
Rocco detto da Vicenza era figlio di Tommaso da Como e nipote di Bernardino da Milano, e si era formato alla scuola di questi maestri lapicidi luganesi autori a Vicenza della Loggia Zeno in Vescovado, di portali e di altari e interpreti della temperie culturale già prerinascimentale ispirata all’antico e diffusa a Venezia da Pietro e Tullio Lombardo.La vicentina, complessa “ macchina” architettonica di Santa Corona è già stata oggetto di ampi studi, ma noi vorremmo soffermarci su alcuni particolari aspetti di carattere iconologico.
Le lesene, i pilastrini dell’attico, le superfici delle cornici al di sopra dei capitelli sono infatti abitati da una fantasmagorica popolazione mitologica legata all’acqua, una fauna marina di tritoni dalle lunghe code contorte a serpentina, di nereidi bicaudate, di nude fanciulle dalla coda squamata, di sinuose sirene dai seni scoperti e dai lunghi capelli svolazzanti, loro insegna di lussuriose promesse.

Un repertorio di mostri marini mezzi uomini e mezzi pesci, cari al mondo pagano dell’antichità, ma inaccettabili per il Cristianesimo che considerava la loro doppia natura segno di devianza e di peccato. La fantastica fauna mitologica è qui vivacemente rappresentata come fosse pronta a circondare l’altare e ad insidiare le pure acque del fiume Giordano reso sacro dal Battesimo del Cristo, quasi un “assedio” del male tutto esterno all’arco centrale preparato a contenere la pala e a coronare e “difendere” l’altare.

Le superfici degli elementi architettonici che strutturano la parte centrale sono invece decorate con motivi tratti dal repertorio religioso simbolico cristiano: a guardia aggraziate testine di serafini fungono da capitelli e da serraglia dell’arco, cornucopie feconde di frutti si rincorrono sulla piattabanda della ghiera, mentre le superfici esterne dei due pilastri angolari sono occupate da ben rilevati girari di evangelici tralci e foglie di vite e quelle interne da classicheggianti candelabre.

Oggetto della nostra particolare attenzione sono però tre elementi decorativi che hanno in comune la lotta contro il serpente simbolo del peccato originale di Adamo ed Eva, da cui Cristo con la sua passione e morte riscatterà l’umanità: la cicogna che uccide un serpente inserita tra le foglie sul lato destro e i due piccolissimi unicorni accovacciati in una cesta imprigionando tra le zampe serpenti che tentano di fuoriuscire posti alla base dei lunghi tralci che si snodano verso l’alto.
I due unicorni non sono qui raffigurati per caso in quanto il loro compito, secondo la leggenda, è proprio quello di purificare dall’insidia del veleno con il loro corno l’acqua in cui il Cristo sta per ricevere il Battesimo dalle mani del Battista.
Agli inizi del Cinquecento nell’immaginario laico e religioso il misterioso unicorno [l’animale era detto anche liocorno, forma abbreviata dal nome del corno detto alicorno] manteneva ancora intatti tutti i suoi poteri, alimentati da molteplici leggende nate in Estremo Oriente cinquemila anni fa.
Esse furono diffuse per la prima volta in Europa dal medico greco Ctesia di Cnido vissuto come prigioniero in Persia tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, nel suo resoconto di viaggio, Indika, e dal bestiario anonimo il Phisiologus scritto in lingua greca nel III secolo d.C. e tradotto in latino in quello successivo e dai racconti di Marco Polo nel suo Livre des Marveilles. Nel considerare l’altare di Santa Corona solo alcuni aspetti della leggendaria simbologia collegata all’esistenza e alle virtù dell’unicorno possono tornar utili.
Per la purezza, castità e verginità che lo qualificavano, si favoleggiava che nessun cacciatore potesse catturarlo e ucciderlo, se prima l’animale non si fosse rifugiato presso una Vergine nascosta nel folto di una foresta appoggiando l’alicorno sul grembo. È evidente l’ambiguità erotica che si trova al fondo di una leggenda che sarà assunta in ambito germanico nel corso del Quattrocento con valenza religiosa come riferito alla verginità di Maria resa madre del Figlio di Dio dallo Spirito Santo, divenendo tema fondamentale nei dipinti delle Annunciazioni come Maria Unicornis, colei che con umile disponibilità ad accogliere il Verbo avrebbe permesso la salvezza e il riscatto dal peccato.

Un secondo filone di leggende diffuso a partire dal XIV secolo, è collegato ai poteri attribuiti a questo animale immaginario e al suo corno in avorio lungo oltre un metro, come prezioso e insostituibile antidoto contro gli avvelenamenti così di frequente usati non solo nel passato, per eliminare il proprio nemico nella lotta per impadronirsi del potere o per conservarlo. L’alicorno divenne così oggetto raro e costosissimo, spacciato e venduto dai pescatori e da abili mercanti dell’Oceano Artico fin dal tempo dei Vikinghi, dando la caccia ad un cetaceo allora sconosciuto al mondo delle scienze, il narvalo dal lunghissimo dente sporgente dalle labbra. Si riteneva infatti che si potessero purificare dal veleno cibi e bevande immergendovi prima come antidoto il corno o la sua polvere triturata salvandosi dalla morte o per curare varie malattie. Regnanti, dominatori, papi, condottieri famosi ne possedevano almeno uno, e nell’inventario del 1295 dei beni di papa Bonifacio VIII ne sono elencati addirittura quattro. Il corno per essere utile doveva provenire però da un unicorno non ucciso con la violenza, ma morto di morte naturale. Così nell’iconografia che lo vede come protagonista, l’animale fu spesso rappresentato mentre immerge il suo corno nelle acque infestate da serpenti velenosi per risanarle, con riferimenti simbolici facilmente trasferibili alla dimensione spirituale religiosa.

L’animale leggendario conobbe ampia diffusione in tutta Europa, e dal XIII secolo fino a tutto il Cinquecento fu raffigurato in dipinti a carattere religioso o in ritratti di nobili fanciulle ad esaltazione della loro virtù ad opera di pittori famosi come Raffaello e Domenichino, in gioielli come talismano, su elementi marmorei, nella poesia con il Petrarca da cui derivano le immagini del Trionfo della Castità con il carro trainato da due unicorni simbolo di purezza e castità. Si contano oltre tremila raffigurazioni sui vari supporti.
Per le sue virtù di castità, purezza, fortezza, fedeltà fu scelto anche dagli Estensi nella loro insegna araldica visibile nel ferrarese palazzo di Schifanoia e rappresentato accovacciato su una cesta e il lungo corno immerso nell’acqua come i più tardi unicorni vicentini.

Ferrara, palazzo Schifanoia

Appare così giustificata la presenza dei due unicorni sulle paraste dell’altare Garzadori di Santa Corona, come portatori di un messaggio di Salvezza e di antidoto al Male rappresentato dalla disordinata congerie di mostri marini.
Secondo un predisposto programma teologico da cui si dipartono i tralci di vite come segno di purezza, furono infatti significativamente inseriti alla base dell’apparato decorativo scultoreo contestualizzati con la rappresentazione del Battesimo di Cristo mondato dal peccato da Giovanni Battista presso le acque del Giordano.