Bach e i gioielli del Margravio

IL QUARTO D'ORA ACCADEMICO
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Bach e i gioielli del Margravio, 299 anni dopo

di Cesare Galla
Giornalista e critico musicale

Monseigneur, comme j’eus il y a une couple d’années le bonheur de me faire entendre à Votre Altesse Royalle, en vertu de ses ordres, & que je remarquai alors qu’Elle prennoit quelque plaisir aux petits talents que le Ciel m’a donnés pour la Musique…
Lo stile è ampolloso, ossequioso e curiale, formalmente ineccepibile, come si conviene a un atto ufficiale e per questo in francese, la lingua della diplomazia, delle corti e in generale della cultura europea nel Settecento. Si tratta di una dedica a Son Altesse Royalle Monseigneur CRETIEN LOUIS Marggraf de Brandenbourg: è il preambolo allo straordinario autografo contenente Six Concerts avec plusieurs Instruments, sentito e anche un po’ speranzoso omaggio firmato dal tres-humble & tres obeissant Serviteur Jean Sebastian Bach, Maitre de Chapelle de S.A.S. le Prince regnant d’Anhalt-Coethen. In calce la data: 24 marzo 1721, esattamente 299 anni fa.
Poiché ebbi, un paio di anni fa, la gioia di farmi ascoltare da Vostra Altezza Reale, grazie ai suoi ordini, e poiché mi accorsi allora che Vostra Altezza provava qualche piacere per i piccoli talenti che il Cielo mi ha regalato nel campo della musica; e poiché nel prendere congedo Vostra Altezza Reale volle farmi l’onore di ordinarmi di inviarGli qualche mia composizione, mi sono dunque preso la libertà di obbedire umilmente - secondo i suoi graziosi ordini – a Vostra Altezza Reale con i presenti Concerti, che ho accomodato per numerosi strumenti. La prego umilissimamente di non voler giudicare la loro imperfezione con il rigore del gusto fine e delicato che ciascuno sa Ella possiede per i brani musicali, ma di tenere piuttosto in benigna considerazione il profondo rispetto e l’umile obbedienza che in questo modo tengo a testimoniarLe. Per il resto, Monseigneur, supplico molto umilmente Vostra Altezza Reale di avere la bontà di confermare la sua benevolenza nei miei confronti, e di essere convinto che nulla mi sta tanto a cuore quanto il poter essere impiegato in occasioni più degne di Lei e del suo servizio…
Quando scriveva queste righe, con calligrafia controllata ed elegante, tutti gli svolazzi al posto giusto, Sebastian Bach aveva compiuto da tre giorni 36 anni. Da circa otto mesi era rimasto vedovo della cugina Maria Barbara, che in tredici anni di matrimonio gli aveva dato sette figli (tre erano morti piccolissimi; fra i sopravvissuti, destinati a fama musicale, Wilhelm Friedemann e Carl Philipp Emanuel); di lì ad altri otto mesi circa, il 3 dicembre di quello stesso anno, avrebbe preso in moglie Anna Magdalena Wilcke, ventenne cantante, quinta figlia di un suonatore di tromba in servizio alla corte di Weissenfels, che gli sarebbe sopravvissuta di un decennio, fino al 1760, e sarebbe passata alla storia della musica come “intestataria” di molte preziose pagine “domestiche” per la tastiera.
In quel freddo inizio di primavera del 1721 Bach non era lontano dal compimento del quarto anno al servizio del principe Leopold di Anhalt-Cöthen in qualità di Capellmeister. Quattro anni per molti aspetti esaltanti, caratterizzati dalla dedizione quasi assoluta al genere strumentale in tutti i suoi diversi aspetti: Hofmusik e Hausmusik, musica di corte e musica “privata”, musica per orchestra, concertante o meno, e musica da camera. Erano nati allora i Soli per violino e per violoncello, le Sonate per violino e cembalo, quelle per flauto e cembalo, quelle per viola da gamba e cembalo, come pure le sontuose Ouverture per Orchestra, i due Concerti per violino e quello per due violini, ma anche il primo volume del Clavicembalo ben temperato e le Suite francesi. Una prodigiosa onda creativa felicemente agevolata dalle condizioni in cui il compositore si era trovato nel nuovo ufficio, dopo le incomprensioni e le beghe dell’ultima parte del servizio a Weimar, culminate nella carcerazione di oltre un mese durante il “braccio di ferro” per ottenere il congedo e raggiungere finalmente Cöthen (ottobre-novembre 1717).
Il principe Leopold (1694 – 1728) era uno spirito musicale dal gusto finissimo, formato non solo in Germania ma anche in Italia, ed era egli stesso un valido esecutore al violino, alla viola da gamba, al cembalo, che non disdegnava di cantare con bella voce di basso. Aveva creato un’orchestra di notevole qualità, fra l’altro invitando presso di sé vari strumentisti della Cappella sciolta a Berlino dal “re sergente” di Prussia, Federico Guglielmo I di Hohenzollern. Poiché la corte non era luterana ma calvinista, le necessità musicali per la chiesa erano ridotte al minimo e tutte le energie del Capellmeister potevano concentrarsi sul servizio “civile”, per il quale le spese erano cospicue. Almeno in due occasioni, nella tarda primavera del 1718 e del 1720, Leopold non esitò a portare con sé – nell’andare a “passare le acque” a Carlsbad – il suo Maestro di Cappella e un discreto numero di strumentisti, in maniera da non interrompere la fervida attività musicale della corte.
Nel pieno di questa avventura artistica unica nella vita di Sebastian Bach, e perciò unica anche nella storia della musica occidentale, al centro di un’esperienza creativa multiforme e complessa, campeggiano dunque i Six Concerts avec plusieurs instruments, inviati al Margravio del Brandenburgo Christian Ludwig di Hohenzollern (1677 – 1734). L’autografo sarebbe rimasto per svariati decenni nell’archivio del castello di Berlino, dove il gentiluomo aveva la residenza; toccò quindi per via ereditaria alla principessa Anna Amalia di Prussia e alla morte di questa (1787) finì dapprima – con tutta la sua biblioteca – allo Joachimstahl Gymnasium e da lì all’inizio del XX secolo alla Biblioteca di Stato di Berlino. Il nome con cui sono universalmente noti, Concerti Brandenburghesi, risale al 1873 e fu escogitato – per le ovvie implicazioni della dedica – dal biografo bachiano Philipp Spitta.
Christian Ludwig era anch’egli un grande cultore di musica. Escluso dalla successione al trono di Prussia in quanto appartenente al ramo cadetto, dopo che il re di cui era lo zio aveva sciolto la Cappella di corte, in certo qual modo si era diviso i componenti dell’orchestra con il principe Leopold di Anhalt-Cöthen, creando a sua volta una formazione strumentale che faceva suonare nelle sue residenze del Berliner Stadtschloss e di Malchow ed Heinersdorf, piccole tenute a pochi chilometri dalla capitale. La sua biblioteca musicale era più che cospicua: conteneva una settantina di opere teatrali, quasi trecento Concerti, decine di Cantate, di Ouverture e di Sonate da camera.
Nella dedica, Bach fa chiarissimo riferimento ad un loro incontro, avvenuto circa due anni prima e dunque all’inizio del 1719. A quell’epoca il musicista si era recato a Berlino per l’acquisto di un clavicembalo, costato al principe Leopold 130 talleri più il rimborso delle spese di viaggio al suo Capellmeister: è più che probabile che proprio in quell’occasione il Margravio – in quel momento l’unico membro della famiglia reale prussiana ad avere un genuino interesse per le cose musicali – abbia avuto modo di ascoltare il celebre compositore e virtuoso e che proprio allora si sia “ingolosito”, chiedendogli di fargli avere qualche composizione.
Si può immaginare che Bach avesse chiaro fin dalla commissione, peraltro così informale che si potrebbe definire piuttosto una richiesta, quali pezzi “accomodare per numerosi strumenti” ad uso del Margravio (cioè per l’esecuzione nelle sue residenze). Occorsero due anni per la complessa messa a punto della raccolta: si trattò, nella maggior parte dei casi, di un lavoro di elaborazione su materiali o su brani già esistenti e non composti appositamente.
La mancata sopravvivenza di documenti relativi all’accoglimento e all’apprezzamento da parte del Margravio, nonché l’inesistenza di prove documentali giunte sino a noi a proposito delle esecuzioni berlinesi hanno portato molti storici a ritenere che l’autografo con i Six Concerts non ebbe l’accoglienza di cui era meritevole, e che fu lasciato a impolverarsi sugli scaffali della biblioteca del castello di Berlino. Certo, l’idea del genio incompreso fa sempre molta presa e ne faceva ancora di più nell’Ottocento, quando prese piede in maniera quasi apodittica questa tesi, ma non si capisce per quale motivo il Margravio avrebbe dovuto perdere ogni interesse per l’arte di Bach nel giro di un paio d’anni, e soprattutto perché la sua cancelleria avrebbe dovuto omettere i protocolli formali di consuetudine.
In realtà, il tono della dedica lascia intendere che Bach abbia voluto fare omaggio della sua arte a un augusto intenditore, che tanto l’aveva lodata, senza un interesse immediato (o il pagamento di un corrispettivo; ma certo una regalia sarà stata gradita…), casomai lasciando aperta la porta a possibilità future: “nulla mi sta tanto a cuore quanto il poter essere impiegato in occasioni più degne di Lei e del suo servizio”. In quel marzo 1721 Bach non poteva vedere segni di crisi nel suo servizio a Cöthen, ma sapeva bene per esperienza personale che la condizione del musico al servizio dei potenti o delle istituzioni religiose era soggetta a mille imprevisti e difficoltà. E infatti, nel giro di un anno anche l’idillio artistico di Cöthen sarebbe giunto a conclusione, e si sarebbero create le condizioni perché il Capellmeister aspirasse a un altro impiego. Ma non poteva certo essere il Margravio del Brandenburgo con la sua piccola Cappella musicale a soddisfare le sue ambizioni. La strada della carriera bachiana portava a Lipsia.

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Per la complessità della genesi e le multiformi caratteristiche dello stile, che del resto nulla tolgono all’affascinante immediatezza dell’ascolto, i Concerts avec plusieurs Instruments ancora oggi dividono gli storici e i musicologi. Forma e struttura sono così originali e particolari che sfuggono alle usuali definizioni di genere e insieme le giustificano tutte. L’unicità della raccolta e di ogni singolo pezzo appare evidente: ciascun Concerto è il punto d’arrivo di una vasta e approfondita riflessione sulla civiltà strumentale europea del primo Settecento e il possibile punto di partenza di uno stile che in realtà non ha avuto seguiti. Ha ragione Christoph Wolff, il direttore del Bach-Archiv di Lipsia: «Ciascuno dei sei Concerti fissava un modello di orchestrazione e ognuno di essi sarebbe rimasto ineguagliato».
La principale controversia fra gli studiosi riguarda l’appartenenza dei Brandenburghesi a una o l’altra delle due grandi famiglie dello stile concertante del Barocco maturo, il Concerto Grosso e il Concerto solistico. Uno storico della musica finissimo come Manfred Bukofzer non aveva dubbi: «Con i loro temi di Concerto meravigliosamente equilibrati, il loro contrappunto coloristico eppure compatto e la loro esuberanza ritmica, i Concerti brandenburghesi sono i Concerti Grossi più ispirati e complessi dell’intero periodo barocco». Severa e appena velata dall’uso del condizionale la reprimenda di Alberto Basso, autore di una grande e minuziosa monografia bachiana, un trentennio dopo le considerazioni di Bukofzer: «Il solismo sarebbe una caratteristica assoluta dei Brandenburghesi e in tal modo cadrebbe definitivamente qualsiasi tentativo – per altro già arduo dal punto di vista formale - di valutare tali concerti nell’ambito “storico” del genere del Concerto Grosso, come invece è stato fatto per vari decenni dalla critica bachiana meno informata».
Più sono rigide, più le classificazioni tendono inevitabilmente a semplificare forzosamente. In realtà, almeno una parte della straordinarietà dei Brandenburghesi consiste nel fatto che essi sono il frutto di un sofisticato e solitario sforzo compositivo volto a fondere la logica formale e strumentale del Concerto Grosso con quella del Concerto solistico. Quest’ultima, peraltro, emerge il più delle volte “in controluce” all’interno di complessi rapporti dialettici fra le parti. Se si esclude la quasi generale adozione della successione tripartita dei movimenti tipica del Concerto vivaldiano, infatti, il solismo si afferma soprattutto come punto di arrivo di un virtuosismo strettamente correlato ai valori timbrici. Appare innegabile, però, che lo spirito generale di ogni Brandenburghese promani dal trattamento dei materiali tematici e dalla loro disposizione formale secondo la tradizione del Concerto Grosso: giustapposizione fra “ripieno” e “concertino”, vivacità e ricchezza del discorso orchestrale strettamente legata al confronto di gruppi sonori, siano essi omogenei o arditamente contrastanti.
D’altra parte, la questione di genere può risultare perfino stucchevole se si considera che la vera caratteristica fondante di questi sei brani è quella che si coglie fin dal titolo autografo apposto da Bach: sono Concerti con “plusieurs instruments”.
La ricchezza dell’organico è un unicum nella storia della musica nel periodo barocco, avvicinato soltanto da poche partiture vivaldiane. Il Concerto N. 1 in Fa maggiore prevede un gruppo di solisti formato da due corni da caccia, tre oboi, fagotto e violino piccolo; il ripieno è dato da due parti di violino, una di viola e basso continuo; nel N. 2 (pure in Fa maggiore) i solisti sono tromba, flauto dolce, oboe e violino; nel Concerto N. 4 in Sol maggiore si hanno come strumenti solisti o di concertino un violino e due flauti dolci (“fiauti in echo” scrive Bach nell’autografo. Probabilmente si tratta di strumenti assimilabile ai “flageolet” della tradizione francese, quindi con tessitura acuta); nel N. 5 in Re maggiore c’è ancora un trio solistico dato questa volta da flauto traverso o “traversiere” (una novità per l’epoca), violino e clavicembalo. Molto particolare è poi il caso dei due Concerti che non abbiamo ancora nominato, il terzo e il sesto. In entrambi il gioco timbrico è dato da una raffinata tavolozza all’interno della famiglia degli archi, secondo la logica dei Concerti “di gruppo”. Il N. 3 in Sol maggiore si basa sul dialogo paritetico a parti separate di tre violini, tre viole e tre violoncelli; se si aggiunge il basso continuo, si constata come le parti reali siano dieci, solo una in meno del Concerto N. 1, il più ricco di colori.

Il N. 6 approfondisce ancora l’idea del dialogo interno a tessiture omogenee, questa volta distribuendolo nelle famiglie degli archi bassi, fra moderno e antico: accanto a due viole “da braccio” suonano due venerabili viole da gamba e un violoncello, in un fittissimo scambio di ruoli fra uscite solistiche e ripieno, cui dà man forte il solo basso continuo.
Quasi sempre indiziaria è la cronologia, tutta a ritroso a partire dal termine ultimo del 24 marzo 1721, quando naturalmente il complesso lavoro di sistemazione della raccolta fu consegnato alla sua forma ultima e definitiva. Secondo l’autorevole musicologo tedesco Heinrich Besseler, citato da Basso, la composizione si sarebbe svolta nel triennio 1718-1720: il Concerto N. 1 (nella prima versione), il N. 6 e il N. 3 risalirebbero al 1718; il N. 2, il N. 4 e l’Allegro del N. 3 al 1719; il N. 5 al 1720. Secondo Wolff la maggior parte dei Concerti risalirebbe invece, almeno nella stesura iniziale, a prima dell’inizio del servizio a Cöthen: lo si dedurrebbe per gli aspetti stilistici (avendo come punto di riferimento centrale il Clavicembalo ben temperato) ma anche per questioni protocollari: Bach avrebbe evitato di offrire al Margravio composizioni create per il principe Leopold. L’ipotesi è plausibile (anche se non confermabile sul piano documentale) soprattutto alla luce del fatto che prima di giungere a Cöthen, quando era a Weimar, il compositore ebbe modo di approfondire accuratamente la tradizione concertante da Corelli a Vivaldi, da Torelli ad Albinoni e fu allora, nella prima metà degli anni Dieci del Settecento, che si delineò il decisivo apporto della scuola italiana allo stile bachiano.
In effetti, esistono tracce di quello che poi sarà il primo Concerto già nella Sinfonia che potrebbe essere stata introduttiva della Jagdkantate BWV 208, datata 1713. Rispetto a quella composizione, il Concerto presenta un secondo Allegro in terza posizione, che determina così l’anomalia formale di questo pezzo, unica in tutta la raccolta. Esso infatti propone nella prima sezione – se così si può chiamarla - la tripartizione dei movimenti tipica del Concerto vivaldiano, nella seconda una sorta di piccola Suite alla francese con Minuetto, Trio e una Poloinese (così Bach nell’autografo), cioè una Polacca. Tipica del gusto francese anche l’introduzione fra gli strumenti concertanti del “violino piccolo”, con la sua accordatura più acuta del violino tradizionale.

L’eclettismo stilistico spinto del N. 1 rimane isolato nel resto della raccolta. Tutti gli altri concerti sono in tre movimenti con l’eccezione del N. 3, che prevede fra l’Allegro iniziale e quello conclusivo – entrambi trascinanti per ritmo – soltanto una cadenza in due accordi. Rispetto alla corposa struttura tematica e alle inserzioni fugate dei movimenti estremi, quelli lenti centrali si configurano il più delle volte secondo una logica prettamente cameristica (dunque, Hausmusik “dentro” alla Hofmusik: ancora un elemento di sincretismo stilistico!). A questo scopo, la composizione del concertino viene rivista e limitata con l’esclusione degli strumenti più sgargianti (nel N. 2 la tromba) o comunque di quelli che non sono funzionali a questa particolare linea espressiva (nell’Adagio del N. 6 tacciono le viole da gamba). L’obiettivo è spesso quello di dare a vita a vere e proprie piccole Sonate, per flauto dolce, oboe e violino nel N. 2, per traversiere, violino e cembalo nel N. 5.
Quest’ultimo Concerto è ancora oggi, insieme al terzo, il più noto. Lo era anche all’epoca bachiana, come dimostra la gran quantità di copie manoscritte esistenti: 11 in partitura e 8 in parti separate, più di tutte le copie di tutti gli altri Concerti. È la pagina in cui le innovazioni e le invenzioni sono più evidenti e diventano decisive per quello che sarà della logica concertante in un futuro ormai prossimo. È il capolavoro “esemplare” nel quale nitidamente si coglie la “ratio” dell’invenzione bachiana, il suo svilupparsi facendo della partitura un “cantiere” fino alla rifinitura conclusiva affidata all’autografo inviato al Margravio.

L’idea si sviluppa ancora una volta dal solido tronco del Concerto Grosso, che presenta però qui un ripieno più solisticamente connotato, con la rinuncia a una seconda parte di violino che si spiega con la netta aspirazione cameristica perseguita dal compositore. Cameristica e concertante. Il “concertino” è formato oltre che dal violino, da uno strumento mai prima impiegato dal Capellmeister, il flauto traverso con la sua tinta ben più concreta e viva di quella rarefatta e sottile dei flauti a becco, o flauti dolci; e da uno strumento invece ben noto e praticato, il clavicembalo, impiegato però in una funzione assolutamente innovativa: non più elemento di basso continuo, ma protagonista solista. “Cembalo concertato” è l’indicazione nell’autografo e lo sviluppo del discorso fin dalle prime battute del primo movimento – con il dialogo fra i tre strumenti di concertino nel quale alla tastiera spetta un’evidente primazia – realizza con palmare evidenza l’intenzione. Già così ci sarebbe di che sottolineare l’importanza storica della composizione, il suo porsi come antesignana del Concerto con tastiera solista, ma Bach si spinge molto più avanti. Alla fine dello stesso primo movimento il musicista sottolinea vigorosamente la nuova concezione attraverso un’invenzione che offre con plastica evidenza il senso del ruolo rivoluzionario concepito per il cembalo, in superba sintesi di virtuosismo e di pensiero. Dunque, mentre lo sviluppo dei nuclei tematici, affidato a violino e flauto con le sottolineature del ripieno, diviene sempre più una trama quasi trasparente, il cembalo si lancia per una decina di battute in volate sempre più vorticose, dal sapore prettamente toccatistico. Quindi la tastiera si prende tutto lo spazio: “solo senza stromenti” scrive Bach sopra i due pentagrammi della parte cembalistica, nel punto in cui inizia una delle più celebri Cadenze nella storia della musica. In realtà, il termine potrebbe essere considerato per certi aspetti improprio: queste 65 battute (quasi un terzo dell’intera estensione del movimento) non sono semplicemente il luogo di un excursus virtuosistico fine a se stesso, che nasce dalla sospensione del discorso musicale (com’è abitualmente nelle Cadenze dei Concerti solistici). Sono piuttosto – e la preparazione musicale dell’evento lo dimostra chiaramente – la prosecuzione dell’invenzione con altri mezzi ma sulla base del nucleo tematico comune a tutte le parti. Senza soluzione di continuità, con una fluidità di linguaggio che mostra la miracolosa tenuta del complessivo discorso concertante. Nasce così il “nuovo” clavicembalo, quello che anche nel contesto orchestrale saprà ritagliarsi una parte da protagonista. Nasce per progressiva elaborazione e accumulazione: in una prima versione di questo movimento, presente in una copia da far risalire a ben prima del 1719-20, il periodo che si considera l’epoca ultima di completamento del quinto Concerto – la Cadenza consta soltanto di 18 battute. Si può immaginare il lavoro di Bach intorno a questo nucleo primigenio, e si può ritenere del tutto probabile che una evenienza pratica sia stata decisiva nel portare il compositore alla versione definitiva di questa pagina, più che triplicata nelle dimensioni.
Questa evenienza fu – come si diceva all’inizio – l’acquisto a Berlino per conto del principe Leopold di un magnifico clavicembalo a due manuali, opera di Michael Miertke, reputato cembalaro di corte. Su questo strumento e per questo strumento berlinese, brandenburghese, giunto a Cöthen nel marzo 1719, Bach plasmò con ogni probabilità la grande, innovativa Cadenza del quinto Concerto. A maggior ragione, allora, era in fondo doveroso e naturale che il capolavoro di cui fu tramite e gli altri suoi fratelli di così seducente ricchezza strumentale fossero consegnati alla storia come i Concerti Brandenburghesi.

 

L’integrale dei Concerti Brandenburghesi diretti da Claudio Abbado con l’orchestra Mozart e il violinista Giuliano Carmignola

N°1 in Fa maggiore, BWV 1046 00:31 I.(Allegro) 00:46 II.Adagio 04:36 III.Allegro 07:41 IV.Menuet - Trio - Menuet - Polonaise - Menuet - Trio - Menuet 11:35
N°3 in Sol maggiore BWV 1048 18:31 I.(Allegro) 18:50 II.Adagio ma non tanto 24:06 III.Allegro 24:31
N°5 in Re maggiore BWV 1050 28:55 I.Allegro 29:10 II.Affettuoso 38:00 III.Allegro 43:04
N°6 in Si bemolle maggiore BWV 1051 47:58 I.(Allegro) 48:12 II.Adagio ma non tanto 54:05 III.Allegro 58:55
N°4 in Sol maggiore BWV 1049 1:04:17 I.Allegro 1:04:31 II.Andante 1:11:27 III.Presto 1:15:16
N°2 in Fa maggiore BWV 1047 1:20:10 I.(Allegro) 1:20:25 II.Andante 1:25:10 III.Allegro assai 1:28:57

Il testo di Cesare Galla in pdf